sabato 30 agosto 2014

Il primo attentato di natura jihadista in Italia: 
il caso del libico Mohammed Game


 L’epsodio che demarca un cambiamento significativo delle dinamiche
del jihadismo in Italia avvenne il mattino del 12 ottobre 2009 presso
la caserma Santa Barbara, un’estesa struttura militare alla periferia
occidentale di Milano.

Alle 7.40, quando il cancello della porta carraia all’entrata principale della
caserma era aperto per favorire l’afflusso delle auto del personale di servizio,
un uomo cercò di varcare la soglia a piedi. Viste le guardie all’ingresso l’uomo
si chinò e fece esplodere una scatola nera che teneva sotto il braccio, urlando
qualcosa in una lingua (con ogni probabilità arabo) che nessuno comprese.
Le autorità stabilirono in seguito che l’esplosione dei 4,6 chili di una sostanza
esplosiva a base di triacetontriperossido (Tatp) che il soggetto trasportava si ridusse a
causa del cattivo stato di conservazione della sostanza e del basso potere
d’innesco del detonatore. L’esplosione comunque causò ferite serie agli
occhi dell’attentatore, che perse anche la mano destra. Due soldati invece
riportarono alcune lievi ferite.

La polizia arrivò sulla scena pochi istanti dopo l’esplosione.
Nonostante le ferite l’uomo riuscì a sussurrare al primo poliziotto che lo
soccorse: «Ve ne dovete andare via dall’Afghanistan». Mentre gli agenti
lo perquisivano aggiunse: «Non ho nient’altro... niente... mi chiamo
Game e sono della Libia». L’indagine che seguì rivelò che l’uomo si
chiamava Mohammed Game ed era, in effetti, un libico nato a Benghazi
nel 1974. Game era arrivato in Italia nel 2003, dopo aver studiato da
perito elettronico nel suo paese. Inizialmente la fortuna gli aveva arriso
e gestiva una fiorente impresa, le cui sorti mutarono dopo pochi anni.
Iniziò a fare lavori saltuari in nero e finì a vivere in una misera casa
occupata senza bagno, nella zona dello stadio San Siro, con un’italiana
che aveva sposato e i loro quattro figli.

Game non era conosciuto alle autorità dell’antiterrorismo italiane
e l’indagine rivelò che la sua radicalizzazione era avvenuta di recente.
Sua moglie e suo fratello Imad raccontarono agli inquirenti che Game
aveva avuto un attacco cardiaco nel 2008 e che da allora la sua vita
era cambiata completamente. Imad raccontò che Game aveva iniziato a
frequentare Viale Jenner e ad accusarlo di essere un infedele perché non
pregava e non digiunava durante il ramadan. Il nipote diciassettenne di
Game raccontò che suo zio passava le giornate su siti internet jihadisti
e che gli aveva recentemente confidato di voler compiere azioni suicide
in Italia contro un autobus o un McDonald’s, asserendo che «così si
guadagnava il paradiso».

La moglie di Game confermò queste storie e confidò agli inquirenti che
il marito era di recente diventato molto religioso e passava le proprie giornate
online, o con due nordafricani cheabitavano nel quartiere, anch’essi frequentatori
di viale Jenner.

Il profilo delineato dai familiari combaciava con quanto gli inquirenti
trovarono sul personal computer di Game. I tecnici informatici della
polizia scoprirono che Game era un avido consumatore di materiale
jihadista e che aveva salvato sul suo computer 788 file su questo tema.
Game inoltre aveva consultato materiale di varia natura, ma sembrava
che fosse rimasto particolarmente affascinato dagli scritti di Abu Musab
al-Suri, del quale scaricò 185 file. Al-Suri, uno dei più celebrati ideologi del
movimento jihadista globale, è particolarmente noto per aver elaborato
il concetto di resistenza senza leader e di jihad tramite terrorismo
individualizzato. Formulando un’idea che è stata adottata poi da altri
vari leader e gruppi del movimento jihadista globale, al-Suri propugnava
un sistema operativo in cui individui o piccoli gruppi isolati potessero
operare autonomamente senza stabilire contatti tra loro. Ciò che, secondo
al-Suri, avrebbe unito questi soggetti sarebbe stato semplicemente «un
obiettivo comune, un programma dottrinario condiviso e comprensivo
di (auto-)educazione». Gli scritti di al-Suri, la maggior parte dei quali
datati anni Novanta, sono visti come la teorizzazione della fase attuale
del jihadismo autoctono in Occidente.

L’analisi del computer mostrò anche che Game aveva un forte astio
per le politiche italiane in materia sia di Esteri sia di Interni. Varie
ricerche su internet e vari documenti scritti da Game mostravano
chiaramente l’opposizione del libico nei confronti della presenza italiana
in Afghanistan. Ma Game era anche fortemente interessato a questioni
interne, in particolare alle attività della Lega Nord e la sua opposizione
alla costruzione di moschee in Italia. Game era molto attento anche alla
storia del colonialismo italiano in Libia e alla relativa resistenza locale.

Per mesi Game passò le sue notti navigando su siti politici,
puramente religiosi e apertamente jihadisti. Tuttavia, anche se con il
tempo la tipologia di siti visitati era divenuta sempre più radicale, Game
non entrò in contatto con siti che fornissero istruzioni operative fino
a poche settimane prima di compiere l’attacco contro la caserma Santa
Barbara. L’evento che pare aver indirizzato Game e le sue ricerche su
internet in una direzione più operativa fu un incidente che avvenne il 20
settembre 2009 di fronte al Teatro Ciak a Milano. In quella data l’allora ex
parlamentare e critica dell’islam, Daniela Santanchè, aveva organizzato
una piccola manifestazione contro il trattamento inferto alle donne
musulmane. Come sede della protesta era stata scelta proprio la strada
di fronte al teatro, che in quei giorni era usato da alcune delle frange più
conservatrici della comunità islamica milanese per festeggiare la fine del
ramadan. Ne seguì una colluttazione nella quale l’ex parlamentare subì
lievi ferite. In seguito emersero foto che mostravano che Game era uno
dei soggetti che si era scagliato contro Santanchè.

L’episodio rappresentò la proverbiale goccia che fa traboccare il
vaso, accelerando drasticamente il processo di radicalizzazione del
libico. Da allora cominciò a dire a persone di cui si fidava che avrebbe
voluto compiere attentati in Italia, lodando al-Qaeda e dicendo che era
l’unica organizzazione che lavorava per il vero islam. Le sue ricerche su
internet, quindi, divennero sempre meno mirate a materiale teorico e
concentrate sul piano operativo. Cominciò a scaricare vari manuali sugli
esplosivi, inclusa la famosa Enciclopedia per la fabbricazione di esplosivi di
Abdallah Dhu al-Bajadin e le Lezioni per la distruzione del crocefisso. Cercò
anche informazioni su possibili obiettivi: l’allora primo ministro Silvio
Berlusconi e la sua famiglia, vari ministri del governo, la metropolitana
di Milano, lo stadio di San Siro e appunto la caserma Santa Barbara.

Fu inoltre allora che Game iniziò ad accumulare sostanze idonee alla
preparazione di esplosivi artigianali in un appartamento a pochi isolati da
quest’ultima e che apparteneva a Abdel Kol, un egiziano che Game aveva
preso a frequentare dopo essere diventato religioso. L’appartamento
divenne un vero e proprio laboratorio per la fabbricazione di ordigni e le
autorità vi trovarono decine di chili di varie sostanze chimiche e oggetti
utilizzati per tali scopi.

L’inchiesta portò all’arresto di Kol e del cittadino libico Mohamed
Israfel, anch’esso complice di Game. Al processo Game fu condannato
a 14 anni, Kol a 4 e Israfel a 3 e mezzo (poi ridotti a 3). Secondo gli
inquirenti, Game, Kol e Israfel costituivano una micro cellula che agiva
in totale autonomia operativa. Tutti e tre frequentavano viale Jenner, ma
non paiono esservi indizi che facciano pensare che fossero inseriti in
qualsiasi struttura organizzata operante presso il centro o nel milanese.

È discutibile se il caso Game possa essere considerato un episodio
di radicalizzazione autoctona. Se, da un lato, il suo processo di
radicalizzazione ebbe luogo a Milano, Game però era cresciuto in Libia e
si era trasferito in Italia solo da adulto – rendendo la sua caratterizzazione
come autoctono meno corrispondente ai criteri usati per definirne la
categoria. In ogni caso i vertici dell’antiterrorismo italiano videro
l’episodio come uno spartiacque e, possibilmente, come la punta
dell’iceberg di un fenomeno più diffuso. Nella Relazione al parlamento
del 2009 la comunità d’intelligence indicava nel caso la conferma di
un fenomeno che si era temuto da anni, cioè l’«improvvisa attivazione
operativa di soggetti presenti sul territorio nazionale che, al di fuori di
formazioni terroristiche strutturate, elaborino in proprio progetti ostili,
aderendo al richiamo del jihad globale». Il rapporto segnalava anche
il pericolo posto da «immigrati di seconda generazione ovvero soggetti nati
e cresciuti in Occidente i quali, resi vulnerabili da situazioni di disagio
economico-sociale o emotivo, aderiscono all’opzione violenta in esito a
un percorso di radicalizzazione favorito dalla propaganda on line e dal
condizionamento di correligionari attestati su posizioni estremiste».

Anche se non nella forma più pura, il caso Game fu indubbiamente la
prima forte indicazione dell’arrivo del jihadismo autoctono in Italia.

venerdì 29 agosto 2014

Jihadismo: il declino delle strutture tradizionali


Verso la metà degli anni Duemila, la maggior parte
dei paesi dell’Europa occidentale furono testimoni di una crescente
minaccia terrorista proveniente da network jihadisti sia tradizionali
che autoctoni.

La punta dell’iceberg del fenomeno è identificabile con
gli attacchi perpetrati (Madrid 2004, Amsterdam 2004, Londra 2005)
e quelli sventati in tutto il continente.

In completa controtendenza, la scena jihadista italiana di quegli anni
fu caratterizzata da una relativa tranquillità.

I vari network nordafricani ben presenti sul territorio
e alcuni nuovi network (quelli dei gruppi pachistani, per esempio)
continuarono le loro attività, ma con un’intensità marcatamente ridotta.

Da questo punto di vista, è significativo che, al di là di qualche piano
molto primitivo o solo teorizzato, nessun attacco venne pianificato da
alcun gruppo strutturato in Italia durante questo periodo.
Un insieme di fattori spiega quest’eccezione a livello europeo.

La pressione esercitata dalle autorità italiane contro le filiere jihadiste
presenti sul territorio è probabilmente il principale. Continue ondate
di arresti che iniziarono nel 2000 smantellarono numerose cellule in
Lombardia e nel resto del paese. Una volta arrestati gli obiettivi principali
di un’indagine, le autorità italiane solevano aprire una nuova inchiesta
contro i soggetti marginali, smantellando così nuclei interi. Grazie a
questo approccio investigativo estremamente tenace, decine di estremisti
furono arrestati, nella maggior parte dei casi (con importanti eccezioni)
condannati a pochi anni di prigione e in seguito espulsi verso il paese
d’origine. Altri furono semplicemente espulsi dal territorio nazionale per
motivi di ordine pubblico, non per via processuale, ma con un decreto
amministrativo.

Nel febbraio 2003 un importante leader della scena jihadista milanese,
l’imam egiziano Abu Omar, fu rapito dalla Cia e trasferito in Egitto. La
vicenda, dai noti sviluppi giudiziari, ha avuto ripercussioni sulle relazioni
tra Italia e Stati Uniti ma anche presso la comunità jihadista italiana. Altri
militanti decisero di lasciare l’Italia spontaneamente. Forse influenzati
nella loro decisione dalla pressione delle autorità italiane, molto jihadisti
abbandonarono il paese per l’Afghanistan, l’Iraq o l’Algeria. Alcuni di
loro morirono in varie battaglie, mentre altri decisero di non tornare in
Italia.

Questi sviluppi portarono a un notevole indebolimento del ruolo
che la moschea di viale Jenner rivestiva per il jihadismo italiano. Pur
rimanendo un importante polo d’attrazione per vari network jihadisti,
il centro cambiò notevolmente. Il reclutamento e le altre attività illegali
che prima venivano svolte all’interno del centro con l’assenso, se non
con il diretto coinvolgimento, della sua leadership si spostarono presso
altre moschee o in luoghi privati. La consapevolezza di essere osservati
da vicino portò i nuclei gravitanti intorno a viale Jenner e altri network
jihadisti a operare in maniera più discreta.

Al ruolo più dimesso delle strutture tradizionali non corrispose la
crescita di una scena autoctona. Gli episodi di Agrigento, Modena e
Brescia rappresentano proprio quest’ultima: episodi, eventi isolati dalla
discutibile natura terroristica e, nel caso di al-Khatib e Chaouki, senza
caratteristiche autoctone. Nei primi anni del Duemila le autorità italiane
non avevano ancora riscontrato alcun segno della radicalizzazione
jihadista autoctona che invece le loro controparti nel resto d’Europa
monitoravano con crescente apprensione. A riprova di ciò, nel gennaio
del 2007 l’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato, dichiarava: «Non
ho mai sentito, né letto in rapporti segreti di musulmani di seconda
generazione sospettati di attività terroristica. Per ora, non è un problema
italiano. Ma vi posso dire che temiamo che diverrà un problema in
futuro».

Una serie di indagini svolte dimostrarono che il fenomeno jihadista in
Italia stava cambiando. La prima inchiesta fu resa pubblica nel luglio del
2007, quando quattro marocchini che risiedevano in provincia di Perugia
furono arrestati in base all’articolo 270 quinquies del Codice penale.

L’articolo, come si vedrà, fu introdotto nel luglio del 2005 e punisce
individui che forniscono o ricevono addestramento su esplosivi, armi
oppure ogni altra tecnica che possa essere utilizzata per fini terroristici.
Il caso era incentrato intorno alla figura di Mostapha el-Korchi, il
quarantenne imam della piccola moschea al-Nour di Ponte Felcino, una
frazione del capoluogo umbro. Carismatico e intraprendente, el-Korchi
era divenuto il leader della comunità islamica locale. Era membro della
Consulta comunale per l’immigrazione e della Circoscrizione di Ponte
Felcino per quanto riguarda il settore immigrati. Tramite queste sue
posizioni, aveva ottenuto fondi per svolgere corsi per i figli di immigrati
nei locali della scuola media comunale. Nel 2006, però, le autorità
vennero a conoscenza che el-Korchi diffondeva idee estremamente
radicali all’interno della comunità. Fu perciò deciso di condurre una
sorveglianza dell’imam e dei suoi più stretti collaboratori e, una volta
raccolti gli elementi comprovanti i primi sospetti, di piazzare alcune
cimici all’interno della moschea.

Nei mesi che seguirono gli inquirenti ascoltarono i sermoni estremisti
che el-Korchi recitava ogni venerdì in moschea. Il 9 febbraio 2007, per
esempio, el-Korchi tuonò: «Dio accetta i martiri musulmani… Dio ci
protegga dagli americani… dagli ebrei e dai cristiani… Dio li distrugga
e li renda deboli». Ancora più preoccupante era il fatto che el-Korchi
diffondesse simili idee nei corsi di lingua e cultura araba che impartiva
ai minorenni all’interno della moschea. Il 14 aprile 2007 fu registrato
mentre ammoniva i bambini: «Ci sarà un giorno del giudizio in cui
tutti i musulmani andranno in paradiso, mentre gli italiani miscredenti
andranno all’inferno e bruceranno… Coloro che non capiscono la
religione musulmana andranno all’inferno e saranno torturati… Colpire
gli altri bambini finché non esce loro il sangue».

Ma i fatti penalmente rilevanti che ancor più preoccupavano le autorità
inquirenti erano quelli che avvenivano a porte chiuse. El-Korchi, infatti,
aveva selezionato un piccolo gruppo di fedeli che passava innumerevoli
ore a indottrinare, una volta che le porte della moschea si chiudevano
al pubblico. El-Korchi gestiva quella che le autorità definirono una vera
e propria “scuola di terrorismo” nella quale mostrava ai suoi discepoli
i video di attacchi terroristici che aveva scaricato da forum jihadisti
protetti da password, manuali su come condurre attacchi e sermoni dei
più noti leader jihadisti mondiali. Alla visione del materiale online, più
di 20mila file furono trovati dalla Digos di Perugia sul computer della
moschea, si aggiungeva l’ascolto di discorsi in cui el-Korchi esortava i
propri adepti a percorrere il cammino del jihad e utilizzare la violenza.

L’indagine della Digos di Perugia – “Operazione Hammam”, dalla
password utilizzata da el-Korchi per entrare in siti jihadisti – terminò
nel luglio 2007 con il rinvio a giudizio di el-Korchi e di tre dei suoi
allievi. L’indagine è molto simile ad altre due compiute nel milanese
(a Macherio, “Operazione Shamal”) e in Calabria (Sellia Marina,
“Operazione Hanein”) nei mesi successivi. Nella prima, conclusa nel
dicembre 2008, la Digos di Milano arrestò due marocchini, accusandoli
di pianificare attacchi contro vari obiettivi a Milano e in Brianza. Nella
seconda, le autorità rinviarono a giudizio tre marocchini, incluso l’imam
della locale moschea, in base all’articolo 270 quinquies21.

I casi, che presentano importanti punti in comune tra loro, hanno
caratteristiche che indicano una parziale rottura con le dinamiche
viste negli anni precedenti. I tre nuclei, infatti, operavano perlopiù
indipendentemente da gruppi strutturati. È vero che el-Korchi aveva
legami con membri del Gruppo islamico combattente marocchino e che
facilitò il viaggio in Iraq di un marocchino che voleva unirsi a gruppi
legati ad al-Qaeda. Ciononostante, il suo nucleo e quelli di Macherio e
Sellia Marina non operavano come parte di una struttura complessa, ma
erano, dal punto di vista operativo, completamente indipendenti.

Inoltre, anche se è vero che la maggior parte dei militanti della
scena tradizionale facevano ampio uso di internet, i tre nuclei in esame
sembra che avessero posto il web al centro delle loro attività. Internet
era l’unico modo in cui questi nuclei, non avendo solidi contatti con il
mondo jihadista globale e operando, nel caso di Ponte Felcino e Sellia
Marina, geograficamente isolati da altri nuclei jihadisti italiani, potevano
approfondire la loro conoscenza dell’ideologia jihadista, imparare
tattiche e celebrare le azioni di vari gruppi jihadisti. internet era per i
piccoli nuclei operanti in cittadine quali Ponte Felcino, Macherio e Sellia
Marina, il cordone ombelicale che li legava al mondo jihadista: una
caratteristica tipica dei network jihadisti autoctoni presenti in Europa.

Al tempo stesso, alcune delle caratteristiche di questi tre nuclei sono
marcatamente diverse da quelle dei network jihadisti autoctoni europei.

In primis, tutti i soggetti che vi appartenevano erano immigrati di prima
generazione (tutti marocchini), arrivati in Italia in età adulta e che, per
la maggior parte, erano scarsamente integrati nella società italiana. Se,
come si usa, per jihadisti autoctoni si intendono coloro che sono nati o
perlomeno hanno vissuto i loro anni formativi in Europa, i membri dei
tre nuclei non possono essere considerati tali.

Inoltre, in tutti e tre i casi la moschea, anche se si tratta più di piccole
sale di preghiera improvvisate, svolge un ruolo fondamentale. Nonostante
frequenti eccezioni, la nuova generazione di jihadisti autoctoni europei
tende a non essere affiliata ad alcuna moschea. Alcuni rifuggono
completamente i luoghi di culto. Altri le frequentano senza occuparvi
posizioni di responsabilità, operando ai margini e spesso nascondendo
le proprie simpatie jihadiste alla dirigenza. A Ponte Felcino, Macherio
e Sellia Marina, invece, la moschea rivestiva ancora lo stesso ruolo
fondamentale che aveva nei network jihadisti tradizionali, al punto che
in tutti e tre i casi l’imam era la forza trainante del nucleo.

Va infine evidenziato che il livello di sofisticazione dei nuclei era
alquanto ridotto. Gli indagati si limitavano a teorizzare come tradurre
il loro zelo jihadista in azioni e solo nel caso di Macherio ci furono
discussioni su eventuali attacchi in Italia, intenzioni espresse in termini
molto vaghi (tanto vaghi che i soggetti furono scagionati).

In sostanza tutti e tre i nuclei possono essere visti semplicemente come
aggregazioni informali di giovani ai margini della società, senza previe connessioni
con il jihadismo e che hanno seguito un leader carismatico, egli stesso
privo di forti legami con gruppi jihadisti strutturati.

giovedì 28 agosto 2014

Hezbollah calls for resistance against IS



Hezbollah’s military predictions, according to internal Hezbollah sources who wish to remain anonymous, indicate two areas in Lebanon likely to be the next battlefields of the expected war with the Islamic State (IS).

The first is in the northern Bekaa Valley and includes a vast area of barren land with rugged tracts, extending from the desolate area of the Lebanese Sunni town of Arsal, running south to the arid lands around the Shiite city of Baalbek and back into Syrian territory. On a parallel line to the area, there are seven Shiite towns — al-Nabi Othman, Al-Ain, Labwe, Nahla, Younnine, Maqneh and Nabi Chit, the most prominent of which is the village of Labwe, neighboring Arsal.

The second expected battlefield is also in north Lebanon, which includes Tripoli and its surrounding cities, as well as the Bekaa Valley.

It's possible that the first flame of this war in Lebanon might break out when IS fighters leave their positions. At the exit of the Bekaa Valley, there is an area suitable for IS’ potential project: the Lebanese Shiite city of Hermel, one of Hezbollah’s strongholds, and the north Lebanese regions of Akkar and Donnieh. These areas have a high density of poor Sunni communities where conditions are favorable as an incubator for IS.
IS’ potential objective in attacking this area would be to set up an emirate in north Lebanon within the Sunni population. Moreover, the port area in the capital of north Lebanon, Tripoli, which opens onto the Mediterranean Sea, will have the same function for IS as the city of Misrata for Ansar al-Sharia in Libya — to smuggle and receive weapons for radical Islamist groups. Misrata became a weapons store for many extremist groups.

According to the same sources within Hezbollah and official security circles, the IS attack that took place this month on the town of Arsal, from the barren lands (of Jroud Arsal, between Lebanon and Syria) is not the end of IS’ war on Lebanon, but rather the beginning. This estimate was endorsed by information from the IS emir in the barren lands of Arsal, Abu Ahmed Gomaa, who was arrested by the Lebanese armed forces.
Another Hezbollah source told Al-Monitor, “Hezbollah learned in advance that IS intends to cross their posts in the barren lands to conduct attacks on seven Shiite villages in northern Bekaa. For this reason, a few days prior to the events in Arsal, [Hezbollah] carried out military maneuvers simulating the [potential] battle to repel IS from these villages. The main objective of this maneuver, which Hezbollah intended that the people in the area see how effective it is, is to deliver a message to extremists that Hezbollah is aware of their intention.”

It seems that delivering warning messages to IS on the ground in the area has become a policy adopted by Hezbollah. Over the past week, Hezbollah invited a Lebanese satellite channel to its military sites facing IS positions in the barrens of Arsal and allowed the station to broadcast its preparations to counter any potential attack by IS.

The sources close to Hezbollah told Al-Monitor that nearly two years ago Hezbollah opened training camps in the area outside the city of Baalbek in the Bekaa Valley, close to the Syrian border, to train youth from different denominations in preparation to face radicals, and although the highest percentage of the trainees in these camps are Shiites, the recent acts by IS against the Christians of Syria and Iraq have pushed dozens of young Christians hailing from the towns adjacent to the Syrian border to join them. Today, these Christian youth represent a form of "people’s protection committees" in their hometowns similar to those formed by Christian youth in Syrian towns.

The Hezbollah sources said, "There is a high level of coordination between these committees, which are expanding, and Hezbollah’s military apparatus, called the Lebanese Resistance Brigades, which is independent from the resistance body tasked with fighting Israel."

With the growing expectation that IS is coming to Lebanon, Hezbollah’s military preparations have evolved toward promoting a plan to establish the Lebanese Resistance Brigades, which gather all denominations, to face IS. Steadily, this plan has started to be accepted by youth from other denominations, particularly the Christians of the north and the Bekaa Valley.

A Christian youth explained why he joined the local protection committee: “What has happened in Mosul has been a message to all Christians of the East that the world will not protect them and that they need to rely on themselves to defend their existence.”

The same Hezbollah source said Hezbollah’s idea to establish the Lebanese Resistance Brigades dates back to the 1990s: “Its objective was initially to make the resistance against Israel a national resistance, not just a Shiite resistance,” the source said. “Yet, its implementation back then was constrained by several obstacles, which resulted in the idea of ​the Resistance Brigades as a militia affiliated with Hezbollah and tasked with countering internal military dangers.”

Today, the idea is being developed as Hezbollah needs to counter an expected war by IS in Lebanon. The new development is succeeding by establishing it in environments where there are existential concerns among Christians in areas close to IS and Jabhat al-Nusra positions at the Syrian border. Hezbollah has actually succeeded in establishing “people’s protection committees” that consist of dozens of Christians from the northern Bekaa towns.

The Hezbollah source said, “The same issue that has faced the Alawites in Syria, with the start of the internal war, is now facing Hezbollah in Lebanon. It says that in parallel to the significant human reservoir that provides IS with fighters from all over the world, Hezbollah’s ability to provide martyrs to face [these fighters] remains limited.

“Lebanon’s Shiites, which represent the party’s main human support, are ultimately a minority of limited numbers compared to the large number of Sunnis. While Hezbollah cannot supply the fighting, which may go on for months and probably years, with martyrs on a daily basis, radical groups are able to compensate for the death toll among their ranks no matter how long the war drags on. Starting from now, Hezbollah is seeking to resolve this dilemma through many means, including creating what looks like a resistance that consists of several denominations against IS.”

Source: Al Monitor

Attentatori islamici in Italia: gli esordi

A inizio Duemila, molti paesi europei cominciarono a notare la
presenza di network autoctoni. Cellule con tali caratteristiche furono
coinvolte in vari attacchi sventati o compiuti, per esempio l’assassinio
di Theo van Gogh nel 2004, ma ancor più nel caso degli attentati di
Londra l’anno successivo. Altri nuclei ancora raggiunsero il Pakistan
o l’Iraq per addestrarsi o combattere. 

Il fenomeno all’epoca non toccò l’Italia, dove praticamente tutte le attività 
jihadiste erano ancora di natura “tradizionale”. 

Tuttavia in quegli anni nel nostro paese avvennero episodi che, con 
il senno di poi, possono essere considerati precursori
di dinamiche che si sarebbero manifestate solo anni dopo in altri paesi
europei. In quei primi anni del Duemila, infatti, l’Italia fu testimone di
alcuni attacchi perpetrati da cosiddetti "lone actor" che possedevano molte
delle caratteristiche delle azioni poi viste in giro per l’Europa negli ultimi
anni.

Il primo sintomo di questo fenomeno si ebbe in Sicilia nei mesi
immediatamente successivi agli attentati dell’11 settembre. Nella notte
del 5 novembre 2001 una bombola di gas da campeggio esplose sui
gradini del Tempio della Concordia, la più maestosa e meglio conservata
delle strutture della Valle dei Templi di Agrigento, causando lievi danni.
Vicino al luogo della deflagrazione le autorità trovarono un lenzuolo con
scritte inneggianti all’islam e contro l’attacco americano all’Afghanistan.
Un altro lenzuolo simile venne rinvenuto anche la notte del 14 febbraio
2002 nei pressi di una macchina rubata che aveva preso fuoco di fronte
al carcere di Agrigento. La macchina conteneva una tanica piena di
benzina che non prese fuoco per l’immediato intervento dei pompieri.
Un episodio pressoché analogo ebbe luogo due settimane dopo, quando
i pompieri impedirono l’esplosione di una bombola di gas da campeggio
da 5 chili piazzata davanti al Palazzo di Giustizia e a una chiesa evangelica
nel capoluogo siciliano.

L’11 maggio 2002 un caso analogo si registrò a 1.500 chilometri a nord
di Agrigento, a Milano. Verso le 10 di sera una bombola di gas nascosta
in uno zaino esplose in un sottopassaggio della stazione Duomo della
metropolitana milanese, la più affollata della linea, causando alcune lievi
intossicazioni tra gli agenti sopraggiunti. Nei pressi le autorità trovarono
un lenzuolo con scritte quasi identiche a quelli rinvenute ad Agrigento:
«Noi combattiamo per la causa, non ci fermeremo più fino a quando non
vi sottometterete ad adorare un solo Dio. Allah è grande». Nel luglio del
2002, dopo una lunga investigazione, le autorità scoprirono che dietro
gli attentati vi era Domenico Quaranta, un imbianchino ventinovenne
siciliano con problemi psichici che era stato introdotto all’islam più
fondamentalista dai compagni di cella nel carcere di Trapani, dove era
stato detenuto per crimini comuni. Una volta in libertà, Quaranta decise
di agire da solo con quella che riteneva una difesa del proprio credo.

Altri due casi di "lone actor" e con caratteristiche quasi identiche tra loro
avvennero nel nord Italia negli anni seguenti alla vicenda Quaranta. Il
primo ebbe luogo a Modena nel dicembre 2003, quando un trentatreenne
di origini palestinesi, Muhannad al-Khatib, riempì la sua Peugeot 205 con
due taniche di benzina e una bombola di Gpl e la parcheggiò di fronte
alla sinagoga nel centro del capoluogo emiliano. Al-Khatib dapprima
cercò di dar fuoco alla macchina dall’esterno, poi, non essendovi riuscito
ed essendo sopraggiunta una volante della polizia, entrò in macchina e
si fece esplodere, morendo, ma non causando altri feriti o danni. Al-
Khatib era sconosciuto alle autorità e non risulta avesse idee o legami
estremisti. I suoi conoscenti di allora lo descrivono come cronicamente
depresso e dicono avesse espresso il desiderio di uccidersi.

Un episodio molto simile avvenne a Brescia la sera del 28 marzo 2004,
quando un trentaseienne marocchino, Moustafa Chaouki, parcheggiò la
sua Fiat Tempra nella corsia “drive through” di un McDonald’s della
città lombarda e la fece esplodere. Come a Modena, l’esplosione uccise
l’attentatore ma non causò altri feriti o ingenti danni. Due giorni dopo
l’esplosione la questura di Brescia ricevette una lettera scritta da Chaouki
in cui il marocchino rivendicava l’atto, indicava che nessuno lo aveva
aiutato e che aveva compiuto il gesto per vendicare le sofferenze delle
popolazioni arabe, in particolare in Palestina e in Iraq.
 
Come al-Khatib, Chaouki era sconosciuto alle autorità antiterrorismo.
Aveva vissuto in Italia sin dal 1989, lavorando come manovale e autista
nel bresciano e nel bergamasco, non aveva precedenti penali e i suoi
padroni di casa e datori di lavoro lo descrivono come un soggetto
irreprensibile. La separazione dalla moglie nel 2002 lo portò a chiudersi
in se stesso, limitando i contatti con i suoi fratelli che vivevano in zona
e andando a vivere da solo in un camper. Poche settimane prima di
uccidersi aveva perso il lavoro e aveva detto ai fratelli che si sentiva un
fallimento nella vita privata e in quella professionale. Nei primi mesi
del 2003 Chaouki aveva contattato un’organizzazione di Brescia che
fornisce supporto psicologico contro la depressione e si era incontrato
in varie occasioni con una loro esperta. Dopo l’incidente al McDonald’s
la donna disse agli inquirenti che Chaouki non aveva mai espresso astio
contro l’Italia e che non aveva dato segnali né di forti passioni politiche
o religiose né di tendenze suicide.

I tre episodi hanno molti elementi in comune. I soggetti hanno agito
come prototipi di "lone actor", non coinvolgendo nessuno in alcuna fase del
loro piano, e pare che nessuno sapesse dell’intenzione di ciascuno dei
singoli attentatori di compiere quel gesto. I soggetti non appartenevano
nemmeno marginalmente ad alcun nucleo militante e, nel caso di al-
Khatib e Chaouki, non era nota alcuna loro simpatia fondamentalista. La
quasi inevitabile conseguenza di tale autonomia operativa è la rozzezza
degli ordigni utilizzati dai tre.
 
D’altra parte, è più che legittimo dubitare se sia appropriato identificare
i tre episodi, in particolare quelli di Modena e Brescia, come terrorismo
vero e proprio. È vero che il modus operandi, gli obiettivi (una sinagoga, un
McDonald’s) e, nel caso di Chaouki, la lettera rivendicante la responsabilità
con chiari riferimenti a istanze geo-politiche, costituiscono elementi forti
di una natura perlomeno parzialmente politico-religiosa degli atti. Al
tempo stesso, però, le condizioni psicologiche d’instabilità mentale o forte
depressione dei soggetti non possono essere ignorate e, anzi, potrebbero
essere legittimamente considerate come le ragioni principali dei gesti.

È ovviamente molto difficile capire queste dinamiche a posteriori, ma
è possibile che al-Khatib e Chaouki abbiano voluto mascherare la loro
intenzione di commettere suicidio – un atto considerato riprovevole,
oltreché un peccato gravissimo nella loro cultura – per motivi personali
con la scelta di modalità che avrebbe potuto rendere il loro un gesto
eroico agli occhi di parte della loro comunità.

mercoledì 27 agosto 2014

La storia del jihadismo in Italia



Il jihadismo autoctono arriva in Italia con qualche anno di ritardo e con un’intensità minore rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale. Il paradosso è che l’Italia è stato uno dei primi paesi europei a essere toccato con una discreta intensità dal fenomeno jihadista. 

Già nei primi anni Novanta, infatti, le autorità locali
investigarono con notevole vigore su network jihadisti particolarmente sofisticati. Questo passo fu determinato dalla presenza sul territorio
nazionale di network particolarmente attivi in quella che è stata definita la
prima fase del jihadismo in Europa, ma anche da un livello di attenzione
al fenomeno da parte delle autorità italiane che, con eccezione della
Francia, non trova molti paralleli in Europa.
Anche se piccoli nuclei di militanti provenienti da vari paesi
nordafricani si stabilirono all’inizio degli anni Novanta in varie aree
del paese, da sempre l’indiscusso centro nevralgico del jihadismo in
Italia è rappresentato dalla città di Milano. 

Il locale Centro culturale islamico, meglio noto come la moschea di viale Jenner, 
un ex garage adibito a luogo di culto, ha svolto un ruolo da protagonista sin dalla
sua fondazione nel 1988, quando uomini legati a stretto vincolo alla
Gamaa islamiya egiziana ne presero le redini. 

Il Centro assunse subito rilevanza strategica per il movimento jihadista globale, quando occupò
una posizione strategica durante il conflitto in Bosnia. 

Non solo l’imam del Centro, Anwar Shabaan, assurse al rango di leader del Battaglione
dei Mujaheddin stranieri impegnati a difendere i musulmani bosniaci,
ma il network milanese divenne fondamentale nel fornire varie forme di
supporto logistico (documenti falsi, soldi, eccetera) per volontari di tutto
il mondo che cercavano di partecipare al conflitto. 

Fu lo stesso network di viale Jenner a produrre quello che sarebbe passato alla storia come
il primo attentato suicida di matrice jihadista in Europa: un’autobomba
guidata da un egiziano residente a Milano contro una caserma della
polizia croata a Fiume/Rijeka nel 1995, atto inteso a vendicare l’uccisione
da parte delle forze croate dell’imam Shabaan. Ma l’unica
vittima dell’attacco fu l’attentatore stesso.

Una lunga investigazione condotta dalle autorità italiane terminò nel
giugno del 1995 con una perquisizione nella moschea e la citazione in
giudizio di diciassette individui legati al Centro. Si trattava però solo di
una frazione del numero complessivo degli investigati. Grazie a quella
operazione la polizia recuperò centinaia di documenti falsi, strumenti
per la relativa contraffazione, riviste estremiste e corrispondenza che
provava legami tra il Centro e militanti attivi in quattro continenti.
Nonostante ciò il Centro continuò le sua attività negli anni Novanta,
fino all’inizio del Duemila, rimanendo quello che il Dipartimento del
Tesoro statunitense definì «la principale base di al-Qaeda in Europaʽ.
Il Centro inoltre stabilì varie attività commerciali che fornivano
non solo fondi, ma anche l’opportunità di sponsorizzare visti per altri
militanti. Predicatori estremisti di caratura globale erano di casa in viale
Jenner. E sebbene la leadership rimase egiziana, estremisti tunisini,
algerini e marocchini iniziarono a confluirvi, rendendo il Centro il
punto di riferimento dell’estremismo jihadista nel nord Italia e non solo.
Documenti falsi, denaro e reclute milanesi supportarono gruppi jihadisti
dall’Algeria all’Afghanistan. 

Particolarmente forte fu il contributo in Iraq, dove una mezza dozzina di soggetti 
reclutati a Milano portò a termine attacchi suicidi negli anni successivi all’invasione americana.
Verso la fine degli anni Novanta nuclei jihadisti, molti dei quali legati
a viale Jenner, erano presenti in varie città italiane, soprattutto al nord.
Sfruttando il proprio carisma e, quando necessario, usando le maniere
forti, soggetti legati al centro fondarono o riuscirono a controllare
moschee in altre città lombarde quali Como, Gallarate e Varese. 

Di spicco fu il nucleo che si formò a Cremona. Nato dall’iniziativa di
membri del Gruppo islamico combattente marocchino, fu attivo dalla
metà degli anni Novanta nel reclutamento, nella raccolta di fondi e nella
disseminazione della propaganda di vari gruppi jihadisti. Il leader del
nucleo, Ahmed el-Bouhali, si suppone morì sotto le bombe americane in
Afghanistan nel 2001, ma il resto del gruppo rimase attivo fino al 2004,
quando molti dei suoi membri furono condannati per vari crimini legati
al terrorismo. Il network aveva anche pianificato una serie di attacchi
contro il Duomo di Cremona e la metropolitana di Milano.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi del Duemila, alcuni piccoli
nuclei jihadisti furono smantellati dalle autorità italiane in varie città,
soprattutto al nord, ma non solo. Varie operazioni, inclusa una che per
la prima volta confiscò un grosso quantitativo di armi, furono eseguite
contro network nordafricani a Torino e Bologna. Anche Napoli fu un
centro importante, soprattutto per i network algerini che sfruttarono la
città campana come nodo logistico.
La stragrande maggioranza di nuclei jihadisti smantellati dalle
autorità italiane in quegli anni possedevano caratteristiche simili.
Le cellule facevano parte di network strutturati e gestiti da leader
carismatici e subordinati a gruppi operanti in Nord Africa. Alcuni
di esse pianificarono attacchi in Italia, ma la maggior parte delle loro
attività erano di natura logistica. Loro mansione principale era quella
di raccogliere fondi attraverso attività che variavano dai piccoli reati
ad attività commerciali legali. Procacciavano armi, documenti falsi e
ogni tipo di materiale utile ai gruppi attivi fuori dall’Europa, per i quali
reclutavano nuovi combattenti. 

Le loro caratteristiche demografiche rispecchiavano quelle dell’immigrazione 
islamica in Italia, e la maggior parte dei soggetti coinvolti in essi erano immigrati 
di prima generazioneprovenienti dalla Tunisia, Algeria, Marocco, Libia ed Egitto. 

Molti di essi erano nel paese illegalmente e vivevano in condizioni di forte disagio
socio-economico.
Le teorie sulla radicalizzazione




 La crescita del terrorismo jihadista autoctono in Europa ha
dato origine a innumerevoli teorie che hanno cercato di spiegare il
fenomeno, anche se non tutte basate su dati dimostrati empiricamente.

Alcune si concentrano su fattori strutturali, come tensioni politiche e
conflitti culturali.

Altre evidenziano fattori personali, quali lo shock di
un’esperienza traumatica o l’influenza di un mentore.

Infine varie teorie sono state formulate specificamente per spiegare la radicalizzazione di
musulmani europei ed enfatizzano elementi quali la ricerca di un’identità,
la discriminazione o la situazione di relativo disagio economico.

La maggior parte degli esperti, tuttavia, tende a convenire che la
radicalizzazione sia un fenomeno altamente complesso e soggettivo,
spesso dettato da un’interazione di vari fattori strutturali e personali
di difficile comprensione.

I soggetti che hanno adottato l’ideologia jihadista includono una gamma di profili
che varia dal discendente di una delle più ricche famiglie dell’Arabia Saudita,
Osama Bin Laden, ad analfabeti cresciuti nel più totale disagio economico.

Anche in Europa i profili dei jihadisti includono criminali che vivono ai margini della
società e laureati che lavorano in alcune delle più prestigiose istituzioni
del continente, oppure ancora teenager e cinquantenni, convertiti, senza
alcuna conoscenza dell’islam, e musulmani con diplomi in teologia
islamica, donne e uomini.

Pare evidente che non esista una sola via verso
il radicalismo ma che ogni caso vada analizzato individualmente.

In molti casi, per identificare le dinamiche di radicalizzazione, la psicologia
offre più spunti d’analisi della sociologia.

Condensando quella che pare essere l’opinione di numerosi esperti in
materia, nel 2008 il “Gruppo di esperti sulla radicalizzazione violenta”
della Commissione europea dichiarò che la radicalizzazione avviene
«all’intersezione fra una traiettoria personale e un ambiente favorevole».

Il profilo personale e la storia di un soggetto sono cruciali per capire
il perché di una specifica reazione a stimoli, influenze e forze esterne
durante il percorso di radicalizzazione.

Capire i vari processi psicologici è estremamente difficile, ma di fondamentale importanza.

Al tempo stesso, come dice il Gruppo di esperti, l’ambiente in cui il soggetto vive
è ugualmente importante per capire il suo processo di radicalizzazione.

È perciò necessario individuare i luoghi (siano essi nel mondo reale o in
quello virtuale) in cui i soggetti vengono introdotti all’ideologia jihadista
e quelli con cui interagiscono durante l’intero processo.

martedì 26 agosto 2014

Solo una persona che ha un nome di un cartone animato, Bernardino Leon, nuovo inviato delle Nazioni Unite per la Libia, può credere che le violenze fra le milizie diverse possano essere risolte con un processo democratico e partecipativo esclusivamente interno alla Libia stessa...

U.N. Envoy Opposes Foreign Intervention in Libya

The newly appointed U.N. envoy to Libya said Tuesday he doesn't believe foreign intervention of any kind can halt the North African country's turmoil as political divisions and infighting push it deeper into chaos.

Only an inclusive political process with all Libyans represented in parliament, government and other state institutions will end the current chaos, Bernardino Leon told reporters, without describing how the elusive goal could be achieved.

Libya needs "a lot of international support" to back "Libyans who want to fight chaos…through a political process," he said.

Libya currently has two rival parliaments in different parts of the country, and two different governments.

The Spanish diplomat spoke in Cairo on Tuesday on his final trip as a European envoy to the region. He takes up his post as the U.N. special envoy to Libya next month. He was in Cairo following a meeting of diplomats from Libya's neighbors where there were calls for an international push to disarm its myriads of militias.

Mr. Leon said Libya's neighbors are in a better position to assess what is going on and to take decisions on ways to support a political process.

"We all agreed that more conflict, more use of force will not help Libya get out of the current chaos," he said, which would also impact countries in the region, in Europe and beyond.

Libya's divisions are rooted in rivalries between Islamists and non-Islamists, as well as powerful tribal and regional allegiances between groups who quickly filled the power vacuum left by the fall of longtime dictator Moammar Gadhafi. Successive transitional governments have failed to control them.

The formation of a new government by the Islamist-dominated outgoing parliament came on the grounds that a handover of authority earlier this month was improperly handled. However, Libya's court system and laws remain in disarray, meaning whoever has the guns has the power.

The political rivalry has been coupled with militia infighting that has scarred the capital and driven out thousands of its residents. It has also turned Benghazi into a battlefield between Islamist militias and fighters loyal to a renegade army general who vowed to weed them out.

Mysterious airstrikes on positions of Islamist militias in Tripoli prompted accusations of foreign military intervention because Libya's air force doesn't have the capacity to do it. Islamist militias accused Egypt and the United Arab Emirates of being behind the airstrikes. Egypt has denied involvement and the U.A.E. has declined to comment on the reported strikes.

To cap the violence, some Libyan lawmakers have called for U.N. intervention to help stabilize the country, awash with weapons and dominated by rival militias and allied political groups.

"Foreign intervention whatsoever—because there are many types of intervention—any kind of intervention or foreign intervention won't help Libya get out of chaos," Mr. Leon said.

Source: AP
Jihadismo: radicalizzazione, reclutamento e collegamento

Le domande relative allo sviluppo del jihadismo autoctono in
Europa sono tante e scaturiscono pressoché spontaneamente.

In che modo giovani musulmani, all’apparenza ben integrati incontrano e poi
abbracciano l’ideologia jihadista? E come fanno a passare dal vivere una
tranquilla vita da studenti, operai o professionisti in cittadine europee
al combattere a fianco di alcune delle più pericolose organizzazioni
terroriste del mondo, in aree remote dell’Asia o dell’Africa? In altre
parole, quali sono i processi psicologici e operativi che portano giovani
musulmani europei alla militanza jihadista?

Per rispondere a queste domande e capire le recenti dinamiche
del jihadismo in Europa è necessario chiarire la differenza fra tre
concetti interconnessi ma differenti: radicalizzazione, reclutamento e
collegamento.

Come si è visto, gli esperti non hanno ancora trovato
una definizione unanimemente accettata di radicalizzazione, ma, da
un punto di vista operativo, è cionondimeno possibile osservare che,
nella stragrande maggioranza dei casi di musulmani europei coinvolti
in network jihadisti, la radicalizzazione è un processo che avviene dal
basso verso l’alto. Gli studi di Marc Sageman e di altri esperti hanno
dimostrato che l’immagine del reclutatore per un gruppo terrorista
«che si nasconde nelle moschee, pronto a ingannare individui inermi
e ingenui» non corrisponde alla realtà dell’Europa occidentale.

È raro che un membro di un gruppo terrorista vada alla ricerca di una possibile
recluta, la introduca all’ideologia jihadista, e la indottrini per poi inserirla
nell’organizzazione.

Dinamiche simili erano abbastanza comuni nei network nordafricani
degli anni Novanta, quando i soggetti venivano introdotti da parenti o
amici a membri di gruppi jihadisti che supervisionavano l’intero processo
di radicalizzazione.

Ci sono indicazioni che al-Shabaab, il gruppo
somalo affiliato ad al-Qaeda, operi in maniera simile, approcciando
soggetti non radicalizzati e “coltivandoli” fino a introdurli nel gruppo.

Ma, nella maggior parte dei casi, l’assorbimento dell’ideologia jihadista
da parte di musulmani europei avviene indipendentemente. In alcune
situazioni, questo processo avviene individualmente: il soggetto si
radicalizza su internet senza interagire con nessun altro.

Questo fu il caso, per esempio, di Roshonara Choudhry, la studentessa del King’s College
di Londra che nel 2010 accoltellò il membro del parlamento inglese
Stephen Timms per il suo supporto alla guerra in Iraq. Choudhry non
aveva alcun legame con nessun gruppo organizzato, ma si radicalizzò da
sola, passando intere giornate ossessivamente su internet a guardare per
mesi i discorsi del predicatore di al-Qaeda nella Penisola Araba, Anwar
al-Awlaki. In obbedienza alla sua chiamata al “jihad individualizzato”,
Awlaki Choudhry decise di agire. Casi simili a quello di Choudhry, anche
se non sempre caratterizzati da una fine violenta, sono stati monitorati
in tutta l’Europa.

Tuttavia, nella maggior parte delle situazioni, la radicalizzazione
avviene in piccoli gruppi. I soggetti hanno il primo contatto con
l’ideologia jihadista attraverso parenti, amici o conoscenti occasionali.
Inizia così un percorso interiore di ricerca e scoperta individuale
condizionato da come il soggetto si relaziona all’ambiente circostante
e con altri soggetti. I “compagni di viaggio” lungo il cammino verso
la radicalizzazione possono essere familiari e amici di una vita o nuove
conoscenze.

Per quanto la decisione d’imboccare questa strada venga
assunta individualmente, il processo di radicalizzazione spesso avviene
attraverso l’interazione con altri soggetti che adottano le stesse idee.

Molto frequentemente predicatori estremisti, veterani di vari conflitti
e web master di siti jihadisti agiscono come fattori radicalizzanti,
esponendo ulteriormente all’ideologia jihadista soggetti che già ne sono
simpatizzanti. Per quanto sia frequente che tali elementi radicalizzanti
possiedano legami di varia intensità con più gruppi jihadisti, raramente
essi agiscono come veri e propri agenti in missione di radicalizzazione.

Allo stesso modo, non c’è dubbio che siti internet e altre forme di
propaganda create da gruppi jihadisti favoriscano la radicalizzazione
di alcuni musulmani europei. Tuttavia, queste iniziative sono dirette
alle masse e ci sono poche indicazioni che esistano tentativi da parte di
gruppi jihadisti operanti al di fuori dell’Europa di radicalizzare specifici
soggetti direttamente, faccia a faccia.

La radicalizzazione jihadista in Europa è, in sostanza, un processo che avviene
dal basso verso l’alto.

Un fenomeno diverso, ma correlato, è quello del reclutamento, ovvero
il processo attraverso il quale un gruppo terrorista inserisce un soggetto
già radicalizzato nei propri ranghi. Nel caso di molte organizzazioni
terroriste operanti principalmente al di fuori dell’Europa, da Hamas alle
Tigri per la Liberazione di Tamil Eelam, è appropriato parlare di attività
dall’alto in basso, dove membri del gruppo agiscono come veri e propri
reclutatori.

Alcuni gruppi legati ad al-Qaeda agiscono in tal modo in
certe zone. Ma in Europa le dinamiche sono alquanto diverse. Anche se
esistono eccezioni (network europei legati ad al-Shabaab apparentemente
conducono quello che può definirsi un vero e proprio reclutamento),
esistono poche indicazioni di un piano organizzato da parte di gruppi
jihadisti per reclutare musulmani europei. Al contrario di quella che può
essere l’opinione comune, non ci sono molte indicazioni che uno o più
gruppi della galassia di al-Qaeda si siano organizzati per mandare “talentscout”
in Europa per cercare reclute promettenti.

Una dinamica molto più comune è invece quella che vede la formazione
di un collegamento tra un individuo o un gruppetto radicalizzatosi
autonomamente in Europa e un gruppo jihadista operante al di fuori
del vecchio continente. La connessione viene stabilita quasi sempre per
iniziativa dell’individuo o del gruppetto basato in Europa e non del
gruppo jihadista.

Limitando la propria analisi ai Paesi Bassi, ma in realtà
descrivendo alcune dinamiche comuni in tutta Europa, nel 2010 l’Aivd
(Algemene Inlichtingen- en Veiligheidsdienst, i servizi d’intelligence
interni olandesi) scrivevano che «contatti tra network jihadisti e individui
qui [nei Paesi Bassi] e network transnazionali di lunga data operanti
all’estero» sono stabiliti in vari modi. Ma, aggiungeva l’Aivd, «l’iniziativa
per il primo contatto sembra generalmente venire dal lato olandese; non
sembra sussistere alcuna strategia pianificata di reclutamento da parte di
network transnazionali».

Al di là di eccezioni isolate, il reclutamento
in Europa occidentale non esiste se inteso tradizionalmente come
fenomeno dall’alto verso il basso, ma solo in senso contrario. Ed è per
questo che è più corretto parlare di collegamento.
Le conseguenze di duplice portata 
dell’arrivo del jihadismo autoctono in Italia

Dagli attentati dell’11 settembre 2001 le autorità della maggior parte
dei paesi europei dichiarano costantemente che, sebbene forme di
violenza politica motivate da altre ideologie siano presenti in tutto il
continente, il cosiddetto terrorismo jihadista costituisce la minaccia più
pericolosa.

Nonostante l’ultimo attacco di notevole portata sia avvenuto
nel 2005 (gli attentati di Londra), ogni anno le autorità dei vari paesi
dell’Unione Europea arrestano in media circa 200 militanti e sventano
una mezza dozzina di attentati riconducibili all’ideologia jihadista. In
alcuni casi, come a Francoforte nel 2011, Tolosa nel 2012 e Londra
nel 2013, gli attacchi di piccola entità sono stati eseguiti da individui
palesemente ispirati dal jihadismo, ma operanti autonomamente.

La natura del jihadismo in Europa è mutata notevolmente nel
tempo. Mentre i primi network jihadisti operativi nei primi anni
Novanta erano composti prevalentemente da immigrati di prima
generazione, legati direttamente a organizzazioni extraeuropee, oggi la
maggioranza dei militanti è autoctona (homegrown); immigrati di seconda
o terza generazione, cui si aggiunge un numero ridotto di convertiti.
Indipendentemente dal fatto che agiscano autonomamente, o che
abbiano stabilito i propri contatti operativi con gruppi appartenenti alla
galassia di al-Qaeda fuori dal continente europeo, oggi i jihadisti europei
sposano il credo della “guerra santa” in maniera autonoma.

Si tratta di una preoccupante evoluzione sociale, che solleva numerosi interrogativi
politici, come sul piano della sicurezza.

La cosiddetta radicalizzazione jihadista autoctona (homegrown jihadist
radicalization) è un fenomeno che molti paesi dell’Europa centrale e del
nord conoscono già dai primi anni Duemila. Recentemente le autorità italiane
hanno cominciato a registrare casi di questo tipo anche sul
nostro territorio. Questo ritardo è attribuibile a un semplice fattore
demografico. In Italia, infatti, solo a fine anni Ottanta, inizio Novanta,
si comincia a vedere un importante flusso migratorio su larga scala dai
paesi a maggioranza islamica: un “ritardo” di venti-quarant’anni rispetto
ai partner europei più avanzati, quali Francia, Germania, Paesi Bassi
e Gran Bretagna.

I musulmani di seconda generazione, quelli nati o
cresciuti in Italia, sono entrati nell’età adulta quindi da poco. Rispetto
al numero di figli di immigrati musulmani cresciuti nel nostro paese
(centinaia di migliaia) e quello dei convertiti (migliaia), chi adotta
l’ideologia fondamentalista rappresenta un numero, poche centinaia,
statisticamente insignificante, tuttavia rilevante per la sicurezza.
Recenti operazioni anti-terrorismo hanno evidenziato queste
dinamiche.

Nel marzo 2012 la Digos di Brescia ha arrestato Mohamed
Jarmoune: ventenne di origini marocchine, cresciuto nel bresciano
e sospettato di pianificare un attacco contro la comunità ebraica di
Milano. Date le sue caratteristiche – cresciuto e radicalizzato in Italia,
molto attivo su internet e non legato a strutture organizzate – Jarmoune
può essere considerato il primo caso di jihadista autoctono italiano.
Inoltre un’inchiesta portata a termine simultaneamente a quella su
Jarmoune ha rivelato l’esistenza di un network di simpatizzanti del jihad
– la maggior parte convertiti, sparsi sul territorio nazionale – impegnati
nella traduzione e divulgazione di testi estremisti e manuali operativi su
vari blog, forum e social network.

Nel giugno del 2013 le autorità hanno arrestato un altro giovane di
origini marocchine, Anas el Abboubi. Anch’egli, come Jarmoune, era
cresciuto nel bresciano. El Abboubi, che gestiva alcuni siti estremisti e
aveva molteplici profili su vari social network, fu accusato di disseminare
materiale jihadista e sospettato di aver pianificato un attentato a Brescia.
Rilasciato per ordine del tribunale del riesame di Brescia dopo poche
settimane, el Abboubi raggiunse la Siria, dove ora pare si sia unito al
gruppo legato ad al Qaeda Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Solo
una settimana dopo il suo arresto si è diffusa la notizia della morte di
Ibrahim Giuliano Delnevo: genovese, convertito all’islam, ucciso in Siria
mentre combatteva nelle fila di una milizia islamista contro il regime
siriano.

Questi casi rappresentano le manifestazioni più evidenti di un
fenomeno di cui le autorità italiane dell’antiterrorismo sono sempre più
consapevoli e preoccupate. Al fianco dei network jihadisti “tradizionali”,
ancora attivi in Italia, è chiaro che sono presenti sia attori indipendenti (i
cosiddetti lone actor), sia piccoli nuclei di soggetti che sono cresciuti in Italia,
che si sono radicalizzati autonomamente, operando indipendentemente
da moschee e altri gruppi strutturati, e che dimostrano una forte presenza
sul web. In ogni caso, si sta parlando di un fenomeno dalle dimensioni
ancora ridotte rispetto ad altri paesi dell’Europa occidentale.

Le conseguenze dell’arrivo del jihadismo autoctono in Italia sono di
duplice portata. La prima è operativa. Nuclei autoctoni o, ancor più,
lone actor sono spesso di difficile identificazione in quanto non inseriti in
una struttura le cui comunicazioni e attività possono essere monitorate
facilmente dalle autorità. Il fenomeno pone dei limiti anche al frequente
uso di espulsioni, uno dei mezzi preferiti delle autorità italiane
antiterrorismo. A causa della nostra rigorosa legislazione in materia è
possibile che alcuni jihadisti autoctoni, nonostante siano nati in Italia,
non abbiano la cittadinanza italiana e siano perciò passibili di espulsione.
Ma altri, a partire dai convertiti, sono cittadini italiani a pieno diritto e
perciò non sanzionabili con l’espulsione.

La seconda conseguenza va vista rispetto al livello socio-politico ed
è probabilmente ancora più preoccupante. Replicando una dinamica
apparsa in più occasioni in numerosi paesi europei, l’eventualità che
un musulmano cresciuto in Italia possa compiere un attacco sul suolo
nazionale genererebbe un dibattito di grandissime proporzioni su
questioni quali l’immigrazione e la presenza dei musulmani in Italia.
Temi, questi, già molto politicizzati e fonti di accese tensioni.

Questo studio vuole effettuare un’analisi critica del jihadismo in
Italia. Per farlo ha concentrato la propria attenzione sull’evoluzione
del fenomeno dagli albori ai casi più recenti, sviscerando le singole
dinamiche e comparandole a quelle viste in altri paesi europei. Lo studio

lunedì 25 agosto 2014

Islamist militants gain control of Libyan capital after Tripoli airport seized in month-long battle

Islamist militants have overrun Libya’s capital after a battle against Government-funded militias lasting nearly a month.

The self-titled Dawn of Libya coalition claimed to have taken control of Tripoli’s international airport as well as much of the city by Sunday evening.

It had been defended by the Zintan Brigades, an anti-Islamist group that played a large part in the Libyan Revolution and has since been funded by the post-Gaddafi regime.

Weeks of fierce fighting and shelling has scarred Tripoli, prompting the closure of embassies as diplomats and foreign nationals, as well as thousands of Libyan refugees to flee.

Umbrella groups of militant factions have gained huge power since the overflow of Muammar Gaddafi following the Arab Spring.

Successive transitional governments have depended on militias to maintain order in the absence of a disciplined police force and unified military but in-fighting has built to the worst violence since 2011.

Air strikes have struck the positions of Islamist militias, sparking accusations by the groups that Egypt and the United Arab Emirates, who oppose Islamists in the region, were behind it but no one has claimed responsibility.

Egypt's President, General Abdel Fattah al-Sisi, rebuffed the accusations, saying his armed forces have not carried out any military operations outside Egypt.

There has also been a backlash from Islamist factions that lost their power in parliament following June elections and in the face of a campaign by a renegade military general against extremist militias in Benghazi, Libya's second-largest city.

A field commander of the Dawn of Libya militia said his forces are in control of Tripoli and adjacent cities, pushing back the Zintan forces almost 60 miles south of the capital.

The political situation worsened on Sunday when the outgoing Libyan parliament voted to sack the current government, leaving the country with two rival parliaments and governments.

The outgoing Islamist-dominated regime refused to recognise the new Government elected in June, which has a more secular and modern stance.

Further inflaming the situation, incoming politicians described the Dawn of Libya militias as “outlawed” and “terrorist groups” who fight to undermine the legitimacy of the state.

Source: The Independent

Il jihadismo autoctono in Italia

analisi di Lorenzo Vidino

L’evoluzione del jihadismo in Italia è caratterizzata da una parabola
alquanto diversa rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Europa
occidentale. Storicamente, l’Italia fu uno dei primi paesi europei a essere
interessato da una presenza jihadista relativamente forte già nei primi
anni Novanta, dato l’attivismo di vari network di origine nordafricana.
Tuttavia, verso l’inizio degli anni Duemila, quando la maggior parte dei
paesi europei dovette confrontarsi con una crescente minaccia posta
in essere da network jihadisti tradizionali (cioè stranieri) e autoctoni
(i cosiddetti “homegrown”), la situazione in Italia era relativamente
tranquilla.

Questo apparve legato a due fattori. In primis, la pressione operata
dalle autorità italiane nei confronti di network strutturati smantellò o
obbligò qualsiasi gruppo potenzialmente jihadista a diminuire l’intensità
delle proprie attività. Al tempo stesso, al ruolo ridotto delle strutture
tradizionali non corrispose una crescita di network autoctoni. Ancora
nella prima decade del Duemila le autorità italiane, infatti, non avevano
rilevato la presenza delle forme di radicalizzazione jihadista autoctona
vista con crescente frequenza in Europa.

Il fallito attentato suicida perpetrato dal cittadino libico Mohammed
Game a Milano il 12 ottobre 2009 è considerato come un evento
spartiacque. Nella Relazione al Parlamento del 2009 la comunità
d’intelligence indicava nel caso la conferma di un fenomeno che si era
temuto da anni, cioè l’«improvvisa attivazione operativa di soggetti
presenti sul territorio nazionale che, al di fuori di formazioni terroristiche
strutturate, elaborino in proprio progetti ostili, aderendo al richiamo del
 jihad globale». È discutibile se Game possa essere considerato un
jihadista autoctono “puro”. La sua radicalizzazione avvenne in Italia,
ma giunse nel nostro paese solo in età adulta. In ogni modo, anche se
non nella forma più pura, il caso Game fu indubbiamente la prima forte
indicazione dell’arrivo del jihadismo autoctono in Italia.

Da allora si sono registrati alcuni casi dalle caratteristiche pienamente
autoctone:
- Nel marzo 2012 la Digos di Brescia arresta Mohammed Jarmoune,
un ventenne di origini marocchine cresciuto in Italia, sospettando stesse
pianificando un attacco contro la comunità ebraica di Milano. Nel maggio
2013 Jarmoune fu condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per aver diffuso
materiale jihadista con fini di terrorismo. Date le sue caratteristiche (cresciuto e
radicalizzato in Italia, molto attivo su internet, non connesso ad alcun gruppo),
Jarmoune può essere considerato il primo caso “puro” di jihadista autoctono
in Italia giudicato da un tibunale.

- Un’inchiesta connessa al caso Jarmoune (Operazione Niriya), terminata
nel 2012, evidenzia l’esistenza di un network di simpatizzanti del jihad italiani,
molti dei quali convertiti, sparsi per il territorio nazionale, che traducevano e
diffondevano testi jihadisti su vari blog, forum online e social network.

- Nel giugno 2013 le autorità arrestano Anas el-Abboubi, giovane di origini
marocchine cresciuto nel bresciano. L’uomo, che aveva cercato di creare la
propaggine italiana del gruppo Sharia4, fu accusato di pianificare attacchi a
Brescia. Assolto dal tribunale del riesame, dopo breve el-Abboubi si recò in
Siria, dove pare si sia unito a un gruppo legato allo Stato islamico dell’Iraq e
del Levante, il ramo locale di al-Qaeda.

- Nel giugno 2013 un convertito all’islam di Genova, Ibrahim Giuliano
Delnevo, fu ucciso in Siria mentre combatteva insieme a una milizia jihadista.

Questi casi paiono chiaramente indicare che il fenomeno del jihadismo
autoctono, a lungo visibile in altri paesi europei, sia arrivato in Italia, anche
se su scala ridotta. La causa di tale ritardo è legata al fatto che nel nostro
paese il fenomeno migratorio da paesi a maggioranza islamica è iniziato
su larga scala solo nei tardi anni Ottanta e nei primi anni Novanta, cioè
venti o, in alcuni casi, trenta o quarant’anni dopo paesi economicamente
più avanzati quali Francia, Germania, Paesi Bassi o Gran Bretagna. La
prima ondata di musulmani della seconda generazione, nati o cresciuti in Italia,
è perciò entrata nell’età adulta da poco. Fra le centinaia di
migliaia di figli di immigrati musulmani cresciuti in Italia e le migliaia di
convertiti italiani, solamente un numero statisticamente insignificante,
ma rilevante dal punto di vista della sicurezza, da identificare, come si
vedrà, in poche centinaia, adotta un’ideologia fondamentalista.
Il panorama attuale del jihadismo in Italia è estremamente
frammentario ed eterogeneo, caratterizzato dalla presenza di vari
attori dalle caratteristiche marcatamente diverse.

L’arrivo del jihadismoautoctono non significa che network “tradizionali” non siano più
 presenti. Molti di loro sono stati fortemente indeboliti dalle ondate di
arresti ed espulsioni eseguite dalle autorità italiane nel corso degli ultimi
quindici anni, ma sono ancora molto attivi (in particolar modo in attività
logistiche).

Al tempo stesso piccoli nuclei e soggetti isolati con caratteristiche
tipicamente autoctone sono sempre più attivi. È impossibile fornire
numeri esatti, ma solo delle stime sommarie. Si può ritenere che i
soggetti attivamente coinvolti in questa nuova scena jihadista autoctona
siano una quarantina/cinquantina. Allo stesso modo, si può stimare
che il numero di coloro che in vario modo e con vari livelli d’intensità
simpatizzino con l’ideologia jihadista sia di qualche centinaio.

Si tratta, in sostanza, di un piccolo insieme di soggetti dalle caratteristiche
sociologiche (età, sesso, origine etnica, istruzione, condizione sociale)
estremamente eterogenee che condivide la fede jihadista. La maggior
parte di questi soggetti interagisce su internet con altri dello stesso credo
in Italia (si può infatti dire che perlopiù si conosca tramite vari social
network su internet) e all’estero. Molti di essi vivono nel nord del paese,
in grandi città quali Milano, Genova e Bologna ma anche in piccoli paesi
di campagna, alcuni si sono anche stabiliti al centro e al sud.

Va chiarito che la maggior parte di questi soggetti non è coinvolta
in alcuna attività violenta, bensì limita la propria militanza a un’attività
spesso spasmodica su internet, mirata a pubblicare e disseminare
materiale che spazia dal puramente teologico all’operativo. Sebbene
questi impegni possano rappresentare una violazione dell’articolo 270
quinquies del Codice penale (Addestramento ad attività con finalità di
terrorismo anche internazionale), tanti tra gli aspiranti jihadisti autoctoni
italiani sono proprio questo, “aspiranti” che non compiono alcuna azione
violenta.

Tuttavia, come i casi di Jarmoune, el-Abboubi e Delnevo hanno
dimostrato, a volte alcuni membri di questa scena informale compiono
– o perlomeno cercano di compiere – il passaggio dalla militanza da
tastiera a quella nella vita reale.
Questa scena possiede alcune caratteristiche comuni (anche se
eccezioni sono sempre possibili):
- I suoi membri tendono a operare al di fuori dell’ambito delle moschee
italiane, dove le loro idee non trovano terreno molto fertile.
- Non paiono esserci contatti tra loro e i network jihadisti tradizionali
affiliati a gruppi della galassia di al-Qaeda, che tendono a vedere i nuovi
militanti con diffidenza.
- Internet è la loro principale (se non unica) piattaforma operativa.
- Talora alcuni di essi passano all’azione, che può consistere in pianificare
attacchi in Italia o viaggiare all’estero per unirsi a un jihad. Quelli che optano
per questa seconda via spesso cercano dei facilitatori che possono fornir loro
gli agganci giusti con gruppi strutturati operanti al di fuori dell’Europa. Queste
dinamiche di collegamento tra aspiranti jihadisti italiani e gruppi strutturati
sono svariate e difficili da ricostruire.
- Seppur costituiscano degli elementi che non vanno ignorati, ci sono scarse
indicazioni che discriminazione e mancanza d’integrazione socio-economica
siano le ragioni principali per la radicalizzazione di jihadisti autoctoni italiani.
Ogni caso va comunque analizzato a sé.

Le conseguenze dell’arrivo del jihadismo autoctono in Italia sono di
duplice portata.

La prima conseguenza è operativa. Nuclei autoctoni o,
ancor più, lone actor sono spesso di difficile identificazione in quanto non
operanti in seno a una struttura le cui comunicazioni e attività possono
essere più facilmente monitorate dalle autorità. L’articolo 270 quinquies
del Codice penale fornisce un ottimo strumento che è stato utilizzato
più volte per arrestare jihadisti autoctoni attivi su internet ben prima
che avessero posto in essere attività concrete mirate al compimento di
attacchi. Tuttavia il caso el-Abboubi ha dimostrato che l’applicazione
dell’articolo può essere problematica. Il fenomeno pone dei limiti anche
al frequente uso di espulsioni, uno dei mezzi preferiti delle autorità
antiterrorismo italiane. A causa della rigorosa legislazione italiana in
materia è possibile che alcuni jihadisti autoctoni, nonostante siano nati
in Italia, non abbiano la cittadinanza italiana e siano perciò passibili
di espulsione. Ma altri, a partire dai convertiti, sono cittadini italiani a
pieno diritto e perciò non sanzionabili con l’espulsione.

La seconda conseguenza dell’arrivo del fenomeno in Italia è a livello
socio-politico ed è probabilmente ancora più preoccupante. Replicando
una dinamica vista in varie occasioni in vari paesi europei, l’eventualità
che un musulmano cresciuto in Italia possa compiere un attacco in
Italia avrebbe ripercussioni enormi su un dibattito a livello nazionale su
questioni come l’immigrazione e la presenza dei musulmani in Italia che
sono già estremanente tese e altamente politicizzate.

Source: ISPI
Il colonnello Nadhuri sostituisce il generale Abdessalam Jadallah al-Abidi, che è stato accusato dal parlamento libico di incapacità nel ristabilire la legge e l'ordine a Tripoli e Bengasi, dove i miliziani hannosconfitto a più riprese le truppe governative.

Libya gets new chief of staff to tackle militia threat

Benghazi - Parliament in Libya has named a new military chief of staff tasked with tackling armed militias that control vast areas of the violence-plagued North African nation.

"Colonel Abdel Razzak Nadhuri was chosen by 88 out of 124 MPs present and promoted to the rank of general" on Sunday, parliament spokesperson Mohammed Toumi told AFP.

Nadhuri replaces General Abdessalam Jadallah al-Abidi, who was grilled by parliament on 10 August on the army's inability to restore law and order to Tripoli and Benghazi, the country's two largest cities where militiamen have run rampant.

Parliament, which sits in Tobruk, 1 600km east of the capital, held Abidi responsible for the deteriorating security situation and blamed him for backing certain militias that in theory report to the army.
"General Abidi was in fact sacked" after his appearance, Toumi said.

Libya's new chief of staff comes from Marj some 1 100km east of the capital.
During the 2011 uprising against long-time dictator Moamer Kadhafi, his battalion joined insurgents in second city Benghazi, the cradle of the revolt.

Legitimate target
Overnight on Saturday-Sunday, the Libyan parliament branded as "terrorists" Islamist militias and jihadists who challenge its legitimacy, and stated its intention to fight back through the regular armed forces.

"The groups acting under the names of Fajr Libya and Ansar al-Sharia are terrorist groups and outlaws that are rising up against the legitimate powers," parliament charged in a statement.

"These two groups are a legitimate target of the national army, which we strongly support in its war to force them to halt their killings and hand over their arms," MPs said.

Fajr Libya is a coalition of Islamist militias, mainly from Misrata, east of Tripoli, while Ansar al-Sharia, which Washington also brands a terrorist group, controls around 80 percent of the eastern city of Benghazi.
Islamist militias openly challenged the legitimacy of parliament on Sunday after announcing their seizure of Tripoli airport, plunging Libya's rocky political transition into fresh crisis.

Tripoli airport, 30km south of the capital, has been shut since 13 July because of deadly clashes between the Islamists and the Zintan force of former rebels that previously controlled it.

Source:  http://www.news24.com