mercoledì 27 agosto 2014

La storia del jihadismo in Italia



Il jihadismo autoctono arriva in Italia con qualche anno di ritardo e con un’intensità minore rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale. Il paradosso è che l’Italia è stato uno dei primi paesi europei a essere toccato con una discreta intensità dal fenomeno jihadista. 

Già nei primi anni Novanta, infatti, le autorità locali
investigarono con notevole vigore su network jihadisti particolarmente sofisticati. Questo passo fu determinato dalla presenza sul territorio
nazionale di network particolarmente attivi in quella che è stata definita la
prima fase del jihadismo in Europa, ma anche da un livello di attenzione
al fenomeno da parte delle autorità italiane che, con eccezione della
Francia, non trova molti paralleli in Europa.
Anche se piccoli nuclei di militanti provenienti da vari paesi
nordafricani si stabilirono all’inizio degli anni Novanta in varie aree
del paese, da sempre l’indiscusso centro nevralgico del jihadismo in
Italia è rappresentato dalla città di Milano. 

Il locale Centro culturale islamico, meglio noto come la moschea di viale Jenner, 
un ex garage adibito a luogo di culto, ha svolto un ruolo da protagonista sin dalla
sua fondazione nel 1988, quando uomini legati a stretto vincolo alla
Gamaa islamiya egiziana ne presero le redini. 

Il Centro assunse subito rilevanza strategica per il movimento jihadista globale, quando occupò
una posizione strategica durante il conflitto in Bosnia. 

Non solo l’imam del Centro, Anwar Shabaan, assurse al rango di leader del Battaglione
dei Mujaheddin stranieri impegnati a difendere i musulmani bosniaci,
ma il network milanese divenne fondamentale nel fornire varie forme di
supporto logistico (documenti falsi, soldi, eccetera) per volontari di tutto
il mondo che cercavano di partecipare al conflitto. 

Fu lo stesso network di viale Jenner a produrre quello che sarebbe passato alla storia come
il primo attentato suicida di matrice jihadista in Europa: un’autobomba
guidata da un egiziano residente a Milano contro una caserma della
polizia croata a Fiume/Rijeka nel 1995, atto inteso a vendicare l’uccisione
da parte delle forze croate dell’imam Shabaan. Ma l’unica
vittima dell’attacco fu l’attentatore stesso.

Una lunga investigazione condotta dalle autorità italiane terminò nel
giugno del 1995 con una perquisizione nella moschea e la citazione in
giudizio di diciassette individui legati al Centro. Si trattava però solo di
una frazione del numero complessivo degli investigati. Grazie a quella
operazione la polizia recuperò centinaia di documenti falsi, strumenti
per la relativa contraffazione, riviste estremiste e corrispondenza che
provava legami tra il Centro e militanti attivi in quattro continenti.
Nonostante ciò il Centro continuò le sua attività negli anni Novanta,
fino all’inizio del Duemila, rimanendo quello che il Dipartimento del
Tesoro statunitense definì «la principale base di al-Qaeda in Europaʽ.
Il Centro inoltre stabilì varie attività commerciali che fornivano
non solo fondi, ma anche l’opportunità di sponsorizzare visti per altri
militanti. Predicatori estremisti di caratura globale erano di casa in viale
Jenner. E sebbene la leadership rimase egiziana, estremisti tunisini,
algerini e marocchini iniziarono a confluirvi, rendendo il Centro il
punto di riferimento dell’estremismo jihadista nel nord Italia e non solo.
Documenti falsi, denaro e reclute milanesi supportarono gruppi jihadisti
dall’Algeria all’Afghanistan. 

Particolarmente forte fu il contributo in Iraq, dove una mezza dozzina di soggetti 
reclutati a Milano portò a termine attacchi suicidi negli anni successivi all’invasione americana.
Verso la fine degli anni Novanta nuclei jihadisti, molti dei quali legati
a viale Jenner, erano presenti in varie città italiane, soprattutto al nord.
Sfruttando il proprio carisma e, quando necessario, usando le maniere
forti, soggetti legati al centro fondarono o riuscirono a controllare
moschee in altre città lombarde quali Como, Gallarate e Varese. 

Di spicco fu il nucleo che si formò a Cremona. Nato dall’iniziativa di
membri del Gruppo islamico combattente marocchino, fu attivo dalla
metà degli anni Novanta nel reclutamento, nella raccolta di fondi e nella
disseminazione della propaganda di vari gruppi jihadisti. Il leader del
nucleo, Ahmed el-Bouhali, si suppone morì sotto le bombe americane in
Afghanistan nel 2001, ma il resto del gruppo rimase attivo fino al 2004,
quando molti dei suoi membri furono condannati per vari crimini legati
al terrorismo. Il network aveva anche pianificato una serie di attacchi
contro il Duomo di Cremona e la metropolitana di Milano.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi del Duemila, alcuni piccoli
nuclei jihadisti furono smantellati dalle autorità italiane in varie città,
soprattutto al nord, ma non solo. Varie operazioni, inclusa una che per
la prima volta confiscò un grosso quantitativo di armi, furono eseguite
contro network nordafricani a Torino e Bologna. Anche Napoli fu un
centro importante, soprattutto per i network algerini che sfruttarono la
città campana come nodo logistico.
La stragrande maggioranza di nuclei jihadisti smantellati dalle
autorità italiane in quegli anni possedevano caratteristiche simili.
Le cellule facevano parte di network strutturati e gestiti da leader
carismatici e subordinati a gruppi operanti in Nord Africa. Alcuni
di esse pianificarono attacchi in Italia, ma la maggior parte delle loro
attività erano di natura logistica. Loro mansione principale era quella
di raccogliere fondi attraverso attività che variavano dai piccoli reati
ad attività commerciali legali. Procacciavano armi, documenti falsi e
ogni tipo di materiale utile ai gruppi attivi fuori dall’Europa, per i quali
reclutavano nuovi combattenti. 

Le loro caratteristiche demografiche rispecchiavano quelle dell’immigrazione 
islamica in Italia, e la maggior parte dei soggetti coinvolti in essi erano immigrati 
di prima generazioneprovenienti dalla Tunisia, Algeria, Marocco, Libia ed Egitto. 

Molti di essi erano nel paese illegalmente e vivevano in condizioni di forte disagio
socio-economico.

Nessun commento:

Posta un commento