lunedì 25 agosto 2014

Il jihadismo autoctono in Italia

analisi di Lorenzo Vidino

L’evoluzione del jihadismo in Italia è caratterizzata da una parabola
alquanto diversa rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Europa
occidentale. Storicamente, l’Italia fu uno dei primi paesi europei a essere
interessato da una presenza jihadista relativamente forte già nei primi
anni Novanta, dato l’attivismo di vari network di origine nordafricana.
Tuttavia, verso l’inizio degli anni Duemila, quando la maggior parte dei
paesi europei dovette confrontarsi con una crescente minaccia posta
in essere da network jihadisti tradizionali (cioè stranieri) e autoctoni
(i cosiddetti “homegrown”), la situazione in Italia era relativamente
tranquilla.

Questo apparve legato a due fattori. In primis, la pressione operata
dalle autorità italiane nei confronti di network strutturati smantellò o
obbligò qualsiasi gruppo potenzialmente jihadista a diminuire l’intensità
delle proprie attività. Al tempo stesso, al ruolo ridotto delle strutture
tradizionali non corrispose una crescita di network autoctoni. Ancora
nella prima decade del Duemila le autorità italiane, infatti, non avevano
rilevato la presenza delle forme di radicalizzazione jihadista autoctona
vista con crescente frequenza in Europa.

Il fallito attentato suicida perpetrato dal cittadino libico Mohammed
Game a Milano il 12 ottobre 2009 è considerato come un evento
spartiacque. Nella Relazione al Parlamento del 2009 la comunità
d’intelligence indicava nel caso la conferma di un fenomeno che si era
temuto da anni, cioè l’«improvvisa attivazione operativa di soggetti
presenti sul territorio nazionale che, al di fuori di formazioni terroristiche
strutturate, elaborino in proprio progetti ostili, aderendo al richiamo del
 jihad globale». È discutibile se Game possa essere considerato un
jihadista autoctono “puro”. La sua radicalizzazione avvenne in Italia,
ma giunse nel nostro paese solo in età adulta. In ogni modo, anche se
non nella forma più pura, il caso Game fu indubbiamente la prima forte
indicazione dell’arrivo del jihadismo autoctono in Italia.

Da allora si sono registrati alcuni casi dalle caratteristiche pienamente
autoctone:
- Nel marzo 2012 la Digos di Brescia arresta Mohammed Jarmoune,
un ventenne di origini marocchine cresciuto in Italia, sospettando stesse
pianificando un attacco contro la comunità ebraica di Milano. Nel maggio
2013 Jarmoune fu condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per aver diffuso
materiale jihadista con fini di terrorismo. Date le sue caratteristiche (cresciuto e
radicalizzato in Italia, molto attivo su internet, non connesso ad alcun gruppo),
Jarmoune può essere considerato il primo caso “puro” di jihadista autoctono
in Italia giudicato da un tibunale.

- Un’inchiesta connessa al caso Jarmoune (Operazione Niriya), terminata
nel 2012, evidenzia l’esistenza di un network di simpatizzanti del jihad italiani,
molti dei quali convertiti, sparsi per il territorio nazionale, che traducevano e
diffondevano testi jihadisti su vari blog, forum online e social network.

- Nel giugno 2013 le autorità arrestano Anas el-Abboubi, giovane di origini
marocchine cresciuto nel bresciano. L’uomo, che aveva cercato di creare la
propaggine italiana del gruppo Sharia4, fu accusato di pianificare attacchi a
Brescia. Assolto dal tribunale del riesame, dopo breve el-Abboubi si recò in
Siria, dove pare si sia unito a un gruppo legato allo Stato islamico dell’Iraq e
del Levante, il ramo locale di al-Qaeda.

- Nel giugno 2013 un convertito all’islam di Genova, Ibrahim Giuliano
Delnevo, fu ucciso in Siria mentre combatteva insieme a una milizia jihadista.

Questi casi paiono chiaramente indicare che il fenomeno del jihadismo
autoctono, a lungo visibile in altri paesi europei, sia arrivato in Italia, anche
se su scala ridotta. La causa di tale ritardo è legata al fatto che nel nostro
paese il fenomeno migratorio da paesi a maggioranza islamica è iniziato
su larga scala solo nei tardi anni Ottanta e nei primi anni Novanta, cioè
venti o, in alcuni casi, trenta o quarant’anni dopo paesi economicamente
più avanzati quali Francia, Germania, Paesi Bassi o Gran Bretagna. La
prima ondata di musulmani della seconda generazione, nati o cresciuti in Italia,
è perciò entrata nell’età adulta da poco. Fra le centinaia di
migliaia di figli di immigrati musulmani cresciuti in Italia e le migliaia di
convertiti italiani, solamente un numero statisticamente insignificante,
ma rilevante dal punto di vista della sicurezza, da identificare, come si
vedrà, in poche centinaia, adotta un’ideologia fondamentalista.
Il panorama attuale del jihadismo in Italia è estremamente
frammentario ed eterogeneo, caratterizzato dalla presenza di vari
attori dalle caratteristiche marcatamente diverse.

L’arrivo del jihadismoautoctono non significa che network “tradizionali” non siano più
 presenti. Molti di loro sono stati fortemente indeboliti dalle ondate di
arresti ed espulsioni eseguite dalle autorità italiane nel corso degli ultimi
quindici anni, ma sono ancora molto attivi (in particolar modo in attività
logistiche).

Al tempo stesso piccoli nuclei e soggetti isolati con caratteristiche
tipicamente autoctone sono sempre più attivi. È impossibile fornire
numeri esatti, ma solo delle stime sommarie. Si può ritenere che i
soggetti attivamente coinvolti in questa nuova scena jihadista autoctona
siano una quarantina/cinquantina. Allo stesso modo, si può stimare
che il numero di coloro che in vario modo e con vari livelli d’intensità
simpatizzino con l’ideologia jihadista sia di qualche centinaio.

Si tratta, in sostanza, di un piccolo insieme di soggetti dalle caratteristiche
sociologiche (età, sesso, origine etnica, istruzione, condizione sociale)
estremamente eterogenee che condivide la fede jihadista. La maggior
parte di questi soggetti interagisce su internet con altri dello stesso credo
in Italia (si può infatti dire che perlopiù si conosca tramite vari social
network su internet) e all’estero. Molti di essi vivono nel nord del paese,
in grandi città quali Milano, Genova e Bologna ma anche in piccoli paesi
di campagna, alcuni si sono anche stabiliti al centro e al sud.

Va chiarito che la maggior parte di questi soggetti non è coinvolta
in alcuna attività violenta, bensì limita la propria militanza a un’attività
spesso spasmodica su internet, mirata a pubblicare e disseminare
materiale che spazia dal puramente teologico all’operativo. Sebbene
questi impegni possano rappresentare una violazione dell’articolo 270
quinquies del Codice penale (Addestramento ad attività con finalità di
terrorismo anche internazionale), tanti tra gli aspiranti jihadisti autoctoni
italiani sono proprio questo, “aspiranti” che non compiono alcuna azione
violenta.

Tuttavia, come i casi di Jarmoune, el-Abboubi e Delnevo hanno
dimostrato, a volte alcuni membri di questa scena informale compiono
– o perlomeno cercano di compiere – il passaggio dalla militanza da
tastiera a quella nella vita reale.
Questa scena possiede alcune caratteristiche comuni (anche se
eccezioni sono sempre possibili):
- I suoi membri tendono a operare al di fuori dell’ambito delle moschee
italiane, dove le loro idee non trovano terreno molto fertile.
- Non paiono esserci contatti tra loro e i network jihadisti tradizionali
affiliati a gruppi della galassia di al-Qaeda, che tendono a vedere i nuovi
militanti con diffidenza.
- Internet è la loro principale (se non unica) piattaforma operativa.
- Talora alcuni di essi passano all’azione, che può consistere in pianificare
attacchi in Italia o viaggiare all’estero per unirsi a un jihad. Quelli che optano
per questa seconda via spesso cercano dei facilitatori che possono fornir loro
gli agganci giusti con gruppi strutturati operanti al di fuori dell’Europa. Queste
dinamiche di collegamento tra aspiranti jihadisti italiani e gruppi strutturati
sono svariate e difficili da ricostruire.
- Seppur costituiscano degli elementi che non vanno ignorati, ci sono scarse
indicazioni che discriminazione e mancanza d’integrazione socio-economica
siano le ragioni principali per la radicalizzazione di jihadisti autoctoni italiani.
Ogni caso va comunque analizzato a sé.

Le conseguenze dell’arrivo del jihadismo autoctono in Italia sono di
duplice portata.

La prima conseguenza è operativa. Nuclei autoctoni o,
ancor più, lone actor sono spesso di difficile identificazione in quanto non
operanti in seno a una struttura le cui comunicazioni e attività possono
essere più facilmente monitorate dalle autorità. L’articolo 270 quinquies
del Codice penale fornisce un ottimo strumento che è stato utilizzato
più volte per arrestare jihadisti autoctoni attivi su internet ben prima
che avessero posto in essere attività concrete mirate al compimento di
attacchi. Tuttavia il caso el-Abboubi ha dimostrato che l’applicazione
dell’articolo può essere problematica. Il fenomeno pone dei limiti anche
al frequente uso di espulsioni, uno dei mezzi preferiti delle autorità
antiterrorismo italiane. A causa della rigorosa legislazione italiana in
materia è possibile che alcuni jihadisti autoctoni, nonostante siano nati
in Italia, non abbiano la cittadinanza italiana e siano perciò passibili
di espulsione. Ma altri, a partire dai convertiti, sono cittadini italiani a
pieno diritto e perciò non sanzionabili con l’espulsione.

La seconda conseguenza dell’arrivo del fenomeno in Italia è a livello
socio-politico ed è probabilmente ancora più preoccupante. Replicando
una dinamica vista in varie occasioni in vari paesi europei, l’eventualità
che un musulmano cresciuto in Italia possa compiere un attacco in
Italia avrebbe ripercussioni enormi su un dibattito a livello nazionale su
questioni come l’immigrazione e la presenza dei musulmani in Italia che
sono già estremanente tese e altamente politicizzate.

Source: ISPI

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