mercoledì 17 settembre 2014

La lotta ai jihadisti italiani: addestratori
e informatori fra terrorismo ed espulsioni

 
Data la lunga esperienza italiana con forme di terrorismo legate ad
altre ideologie, il sistema giuridico nazionale dispone da anni di una
struttura normativa assai articolata. Storicamente, la maggior parte dei
jihadisti arrestati in Italia è stata accusata di associazione con finalità
di terrorismo (articolo 270 bis del Codice penale).

L’articolo dice che «chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige
o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza
con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico è punito
con la reclusione da sette a quindici anni.

Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione
da cinque a dieci anni. Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo
ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato
estero, un’istituzione e un organismo internazionale».

L’articolo 270 bis copre forme di terrorismo in cui la forma associativa
costituisce un elemento fondamentale. Come nella maggior parte dei
paesi europei, quando il legislatore italiano scrisse la norma aveva in
mente una forma di terrorismo tradizionale, che implica una struttura
più o meno gerarchica o, perlomeno, un’associazione di persone dotata
di una certa stabilità. Ma, come si è visto, le dinamiche relative al
terrorismo sono cambiate notevolmente in tutta Europa negli ultimi
anni e molti sistemi giuridici europei hanno fatto fatica a tenere il
passo.

Un problema particolarmente ricorrente e complesso è quello dei
piccoli nuclei informali o ancor più dei lone actor che, pur esibendo un
chiaro fervore jihadista e un desiderio di compiere azioni violente, non
appartengono ad alcun gruppo strutturato. Se da un lato le autorità di
tutti i paesi europei esprimono la necessità non solo di monitorare questi
soggetti ma anche, in certi casi, di arrestarli prima che compiano atti
immediatamente preparatori a un attacco, tale esigenza è controbilanciata
da quella di non criminalizzare quei soggetti solo per delle opinioni
espresse.

Il dibattito sulla questione tocca il nodo dell’equilibrio tra
sicurezza e libertà fondamentali ed è pertanto molto acceso.

Nel 2005 il legislatore italiano optò per una soluzione che pende
maggiormente nella direzione delle esigenze di sicurezza e introdusse
l’articolo 270 quinquies del Codice penale. L’articolo punisce con la
detenzione fra i cinque e i dieci anni chiunque «addestra o comunque
fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi,
di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche
nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il
compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici
essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato
estero, un’istituzione o un organismo internazionale». La norma, in
sostanza, cerca di punire comportamenti che precedono e sono funzionali
alla commissione del reato. Data la nuova natura del terrorismo, dove
grazie a internet è relativamente facile per qualsiasi soggetto ottenere
informazioni atte alla realizzazione di un atto di terrorismo, il legislatore
italiano ha pensato che ottenere e fornire materiale operativo con chiare
intenzioni terroristiche debba essere un comportamento penalmente
rilevante.

La norma, come la Corte di Cassazione ha avuto modo di spiegare
nella sentenza sul caso di Mustafa el-Korchi (l’imam di Ponte Felcino),
punisce sia colui che fornisce le informazioni, che la corte identifica
nelle categorie dell’“addestratore” e dell’“informatore,” sia colui che le
riceve, cioè l’“addestrato”. Inoltre la corte ha specificato che l’articolo si
applica anche se il soggetto che ha ricevuto le informazioni non le mette
in pratica e perfino se non le ha intese. È però non punibile la figura
del “mero informato,” cioè il soggetto che è un occasionale destinatario
di informazioni al di fuori di un qualsiasi rapporto di addestramento.

La norma è stata utilizzata in vari casi connessi al terrorismo di
matrice jihadista. I critici ritengono che punisca soggetti che non hanno
commesso alcuna azione violenta, ma che hanno solamente espresso
opinioni e fatto circolare materiale che, nella maggior parte dei casi,
è già accessibile a tutti su internet. Fu questa, per esempio, la difesa
degli avvocati di Jarmoune quando il pubblico ministero bresciano,
Antonio Chiappani, accusò il giovane di aver addestrato un numero
non specificato di soggetti attraverso la disseminazione su internet di
manuali operativi.

Se i giudici di Brescia accolsero la tesi dell’accusa nel caso di Jarmoune,
identiche accuse contro el-Abboubi ebbero un destino diverso. Pochi
giorni dopo il suo arresto, infatti, i suoi avvocati adirono al tribunale
del riesame di Brescia, adducendo che il loro cliente non aveva idee
radicali o violente, aveva visitato siti con istruzioni su armi ed esplosivi
solo saltuariamente e per semplice curiosità, solo per approfondire un
suo interesse generale. Il giovane, aggiunsero gli avvocati, non aveva
inviato i link di tali video se non in un paio di occasioni e perciò il suo
comportamento non configurava gli estremi dell’articolo 270 quinquies.

Pronunciandosi, il tribunale asserì che, al contrario di quanto
sostenevano gli avvocati, era evidente che el-Abboubi adottava in pieno
posizioni estremiste e che le aveva espresse su internet. Tuttavia, dando
ragione ai suoi avvocati, il tribunale sostenne che ciò non comportava
una violazione dell’articolo 270 quinquies. El-Abboubi aveva sì
guardato video con istruzioni su armi ed esplosivi, ma aveva fatto ciò
solo sporadicamente e senza nemmeno salvarli. In alcune circostanze
li aveva inviati ad altri soggetti. Ma tali filmati furono considerati di
carattere amatoriale o simili a documentari televisivi e non idonei a
fornire informazioni concrete a coloro che li ricevettero. In sostanza,
il tribunale ritenne che, dato lo scarso valore operativo dei file condivisi
solo occasionalmente da el-Abboubi con un paio di contatti, il suo
comportamento indicava che fosse un fondamentalista islamico, ma
ciò non configurava una violazione dell’articolo 270 quinquies. Come
visto, poco dopo essere stato rilasciato el-Abboubi lasciò l’Italia per la
Siria, da dove ancora oggi incita militanti italiani via internet.

Il caso el-Abboubi porta alla luce una delle più serie difficoltà
incontrate dalle autorità nella loro lotta contro la nascente minaccia del
jihadismo autoctono in Italia. Dato che sembra impossibile accusare lone
actor come Jarmoune ed el-Abboubi di un reato di natura associativa
come quello previsto dall’articolo 270 bis, l’articolo 270 quinquies
sembra essere una valida alternativa. Tuttavia la norma, per quanto
ben scritta, è inevitabilmente soggetta a una forte discrezionalità
interpretativa da parte giudiziale e infatti due giudici dello stesso
tribunale (Brescia) l’hanno interpretata diversamente. Non c’è dubbio
che l’attività quasi maniacale di Jarmoune su internet costituisca una
violazione dell’articolo 270 quinquies ben più evidente e marcata di
quella di el-Abboubi. Ma è altresì chiaro che l’applicazione di un articolo
che punisce comportamenti che non sono necessariamente collegati ad
atti violenti dipende fortemente non solo dalle circostanze del caso, ma
anche dalla discrezionalità dell’organo giudicante.

I pochi casi finora riscontrati in Italia e le più vaste esperienze degli
altri paesi europei hanno mostrato che il jihadismo autoctono presenta
anche forti problemi dal punto di vista operativo per le autorità inquirenti.

Il monitoraggio di soggetti dalle chiare simpatie jihadiste spesso porta
gli inquirenti a interrogarsi sulla possibilità e l’opportunità di compierne
l’arresto. Per quanto riguarda il primo problema, l’articolo 270 quinquies
fornisce alle autorità italiane, a differenza dei loro colleghi in molti paesi
europei, uno strumento giuridico estremamente flessibile entro il quale
può essere considerata un’ampia gamma di attività. Tuttavia gli inquirenti
possono ritenere che, per quanto l’arresto sia giuridicamente possibile,
esso vada posticipato per ragioni operative. Questo perché ritengono che
sia utile accumulare ancora più prove contro il soggetto, fortificando il
caso, ma anche per motivi di intelligence, cioè per ottenere informazioni
sui contatti e le modalità operative dell’indagato.

Questo desiderio di prolungare l’inchiesta è spesso contrastato dalla
paura che l’indagato possa compiere azioni violente. L’esperienza italiana
(nel caso Game, per esempio) e di altri paesi ha evidenziato che lone
actor o piccoli nuclei spesso entrano in azione senza mostrare segni
visibili che possano far scattare l’allarme. Le autorità inquirenti perciò
devono costantemente bilanciare la loro esigenza di raccogliere quante
più prove possibili per il caso e intelligence utile per altri casi o per una
visione d’insieme con l’obiettivo fondamentale di mantenere la sicurezza
pubblica.

Stabilire se un soggetto stia per compiere il passo da “jihadista da
tastiera” a vero e proprio terrorista (e, in tal caso, come e quando) è
un compito di una difficoltà estrema. Anche in questo senso sono in
gioco due interessi contrapposti. Da una parte consentire che l’indagato
compia alcune delle attività preparatorie per un attacco terrorista può
fornire agli inquirenti prove schiaccianti in sede processuale. Dall’altra
permettergli di fare ciò è estremamente rischioso, dato che gli inquirenti
non possono essere certi di poter monitorare e controllare ogni attività
compiuta dall’indagato.

Nei pochi casi di terrorismo jihadista autoctono sinora affrontati pare
che le autorità italiane abbiano deciso di non correre rischi, come si vede
nei casi Jarmoune ed el-Abboubi. Entrambi furono monitorati dalla
Digos di Brescia per mesi e gli inquirenti raccolsero prove sufficienti per
arrestarli in base all’articolo 270 quinquies. Nonostante ciò l’indagine
venne portata avanti in modo da poter raccogliere più prove e più
intelligence da usare in sede processuale. Ma, nel momento in cui gli
inquirenti videro che gli indagati avevano condotto una sorveglianza
virtuale di siti che si poteva presumere avrebbero potuto essere obiettivi
di un attacco terrorista (siti della comunità ebraica milanese nel caso di
Jarmoune, varie strutture a Brescia nel caso di el-Abboubi), si procedette
all’arresto.

Anche se i sopralluoghi virtuali sono citati nelle due ordinanze di
custodia cautelare, né Jarmoune né el-Abboubi furono formalmente
accusati di aver pianificato un attacco terrorista, ma solo in base
all’articolo 270 quinquies, dato che le prove per dimostrare la più grave
accusa di aver pianificato un attentato furono giudicate troppo deboli.
Sembra che la paura che due soggetti che chiaramente adottavano
l’ideologia jihadista potessero entrare in azione convinse gli inquirenti
a chiudere un’indagine che altrimenti avrebbero tenuto aperta per
raccogliere prove e informazioni aggiuntive. È probabile che nel caso di
el-Abboubi, visto il fatto che fu poi rilasciato, tale decisione (per quanto
ineccepibile e inevitabile) abbia pregiudicato il caso che gli inquirenti
stavano costruendo.

Il jihadismo autoctono provoca, infine, un altro problema di tipo
operativo. Storicamente le autorità italiane hanno fatto ampio uso
di espulsioni come strumento dell’antiterrorismo. Sia in casi in cui
colpivano soggetti condannati, dopo aver scontato la pena, sia in casi
in cui erano applicate per via amministrativa contro soggetti che non
erano stati arrestati (come nel caso visto sopra di Mamour, il marito
senegalese di Farina, espulso per «turbativa dell’ordine pubblico e
pericolo per la sicurezza dello Stato»), negli ultimi vent’anni le espulsioni
hanno permesso alle autorità italiane di “liberarsi” di decine di jihadisti
che non avevano la cittadinanza italiana.

Questa tattica non è sempre utilizzabile nei casi di jihadisti autoctoni.
Molti di loro sono italiani convertiti e perciò, in quanto cittadini, non
passibili di espulsione. Tra gli immigrati di seconda generazione solo
alcuni hanno la cittadinanza italiana (data la severità delle norme che
regolano il diritto alla cittadinanza anche per soggetti nati e cresciuti in
Italia). Tuttavia un numero crescente di essi ha la cittadinanza e sono
perciò anch’essi non passibili di espulsione (a meno che tale cittadinanza
sia stata ottenuta tramite naturalizzazione e venga revocata). Pare ovvio
che il comodo meccanismo dell’espulsione non sarà sempre una scelta
possibile in futuro.

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