lunedì 8 settembre 2014

Poca moschea ma tanto internet: il monitoraggio
del jihadismo italiano su Facebook


La nascente scena jihadista autoctona italiana ha pochi contatti
con le moschee. Una distinzione importante, anche se
inevitabilmente arbitraria, va operata tra moschee radicali e non.

Per quanto riguarda le moschee non radicali, che sono ovviamente la
maggior parte di quelle presenti sul territorio nazionale, in molti casi
si è visto che aspiranti jihadisti non vi hanno trovato terreno fertile
e ne sono stati allontanati. Le dinamiche cambiano di caso in caso e
dipendono da circostanze specifiche.

In alcune circostanze le moschee la cui dirigenza non ha simpatie radicali
sono comunque frequentate da aspiranti jihadisti autoctoni. Questo può
avvenire perché il soggetto non esprime apertamente le sue idee, oppure
lo fa solo a una cerchia ridotta di fedeli, senza che i dirigenti ne siano a
conoscenza.

In alcuni casi la dirigenza tollera certe attività.

In generale, le moschee italiane non sono un luogo ospitale per i
jihadisti autoctoni. Perché a volte questi non le frequentano per scelta, o
non le considerano in linea con la loro interpretazione dell’islam, oppure
perché temono di essere sorvegliati dalle autorità al loro interno. Ma,
quasi sempre, è la dirigenza della moschea a far sapere apertamente
agli attivisti che le loro posizioni e attività non sono tollerate. Questo è
quanto sembra sia avvenuto nel caso di Delnevo e del suo gruppetto di
convertiti a Genova. La maggior parte delle moschee italiane possiede,
nelle parole di Claudio Galzerano, uno dei massimi esperti in materia
della comunità antiterrorista italiana, “i giusti anticorpi” per difendersi
da soggetti nocivi.

Un discorso diverso va fatto riguardo alle moschee radicali. Queste
devono essere divise in due categorie: moschee radicali tradizionalmente
controllate o pesantemente influenzate da network militanti, come
quella di viale Jenner a Milano, e moschee radicali autonome. Per
quanto riguarda le prime, il clima molto meno permissivo degli ultimi
anni ha posto fine all’era delle moschee apertamente jihadiste, in Italia
come nel resto d’Europa. Molte delle moschee storicamente militanti
hanno mantenuto una propria connotazione e in alcuni casi certe attività
avvengono ancora al loro interno.

L’operazione Masrah ha dimostrato che la leadership di una moschea militante
 “tradizionale,” di prima generazione (quella di Andria) è ancora coinvolta
in attività apertamente militanti.

Più in generale, quelle moschee legate a network jihadisti
ben strutturati hanno imparato ad agire con maggiore discrezione.

Relativamente invece alle moschee radicali non connesse, gli esempi di
Ponte Felcino, Macherio e Sellia Marina dimostrano che esistono alcuni
casi di moschee coinvolte direttamente in attività militanti i cui dirigenti
possiedono contatti solo limitati o, in casi estremi, nessun contatto con
strutture jihadiste organizzate.

È interessante notare, quindi, come non si abbiano indicazioni
di contatti tra moschee radicali italiane, siano esse connesse o non
connesse, e la nascente scena autoctona. La maggior parte dei membri
di tale scena, infatti, non sembra frequentare alcuna moschea radicale.

E, basandosi sul proprio monitoraggio delle due scene, le autorità sono
portate a credere che ci siano solo limitatissimi contatti tra network
jihadisti della prima generazione e attivisti autoctoni. Limitate eccezioni
esistono, sì. All’inizio del suo processo di radicalizzazione, per esempio,
Delnevo frequentò un militante pachistano di base a Bologna. E pare
che Andrea Campione avesse un mentore con un pedigree radicale nel
pesarese. Ma tali contatti sembrano essere episodici e dalle conseguenze
limitate. Le due scene quindi paiono svilupparsi su due universi paralleli,
condividendo la medesima ideologia ma non incontrandosi mai.

Vari fattori possono spiegare questa separazione. Il primo è la barriera
linguistica: mentre i militanti della prima generazione sono perlopiù
nordafricani spesso con limitata dimestichezza con l’italiano, gli attivisti
autoctoni invece hanno spesso limitata padronanza dell’arabo, e questo
contribuisce a far sì che si creino difficoltà di comunicazione. Ma un
fattore forse più importante nel determinare questa separazione è la
diffidenza con cui le strutture tradizionali guardano la nuova generazione
autoctona. Da sempre caratterizzate da segretezza e cautela, le strutture
tradizionali paiono poco aperte a esterni ed è molto probabile che
vedano i nuovi attivisti autoctoni, in particolare gli italiani convertiti,
come spie che cercano un’infiltrazione. Anche quando la buona fede dei
nuovi attivisti è comprovata, è il loro comportamento che preoccupa.

Molti dei nuovi attivisti autoctoni, infatti, con il loro modo di vestire
(indossando lunghe tuniche bianche, giacche e pantaloni militari, lunghe
barbe, turbanti...) e di parlare (dichiarando apertamente le proprie idee
più radicali, su internet e di persona) attrirano l’attenzione delle autorità.

I network tradizionali, consci di ciò, tendono perciò a rifuggirli.
In altri paesi europei questo gap è stato spesso colmato e strutture
tradizionali e autoctone lavorano insieme o si sono addirittura fuse.
Ciò può essere avvenuto perché la diversità linguistica non sussiste
più o perché la scena autoctona esiste da più anni. È perciò possibile
che questo possa avvenire anche in Italia. Tali dinamiche non seguono
schemi predeterminati e può succedere che in un determinato contesto
un evento fortuito (per esempio la formazione di un rapporto di fiducia
tra un militante della scena tradizionale e di uno della scena autoctona in
carcere) possa portare alla chiusura del gap anche in Italia. Ma, perlomeno
al momento attuale, non ci sono indicazioni di rapporti sostanziali tra
le due scene.

In cattivi rapporti con la maggior parte delle moschee e delle
organizzazioni islamiche italiane, schivati dai network jihadisti
tradizionali e operando come attori solitari o piccoli nuclei sparsi sul
territorio nazionale, gli attivisti autoctoni italiani hanno creato una
propria scena prevalentemente su internet. L’importanza di internet
nella radicalizzazione dei jihadisti europei contemporanei non è enorme.

Come per altre ideologie, è sul web che molti hanno scoperto l’ideologia
jihadista, l’hanno approfondita e hanno interagito con altri soggetti dagli
interessi simili. Vari gruppi jihadisti hanno da tempo scoperto l’enorme
potenziale della rete e vi hanno stabilito una forte presenza sin dagli anni
Novanta.

Oggi vi sono migliaia di siti che disseminano la propaganda
jihadista e permettono a simpatizzanti jihadisti di comunicare tra loro.
Alcuni di questi siti sono gestiti direttamente da gruppi jihadisti o da
soggetti legati a essi, ma negli ultimi anni si è registrata una fenomenale
crescita di siti gestiti da soggetti senza alcuna connessione con essi.

Il boom dei social network ha aumentato in maniera esponenziale la
capacità per soggetti che non appartengono ad alcuna struttura formale
di accedere e disseminare propaganda jihadista tramite piattaforme
interattive quali facebook, twitter, YouTube, Paltalk e Instagram.

Se negli anni Novanta la maggior parte dei siti jihadisti parlava
arabo o altre lingue extraeuropee, negli ultimi dieci anni vi è stata una
crescita esponenziale del numero di siti in inglese e, in misura minore,
in francese, tedesco e olandese. In tutta Europa esistono soggetti i cui
livelli di affiliazione a gruppi jihadisti variano da forti a inesistenti, che
“postano” comunicati di gruppi jihadisti, notizie su vari conflitti, testi di
predicatori salafiti e jihadisti, e commenti sulle questioni più disparate.

Inizialmente limitato a siti e blog, questo materiale si trova ora su varie
piattaforme interattive. L’interazione sui vari forum, chat room, profili di
facebook, twitter e Instagram consente agli aspiranti jihadisti di sentirsi
parte di una comunità globale, aumentando la loro fede e l’impegno
nella causa jihadista.

Manifestazioni di queste dinamiche avvengono anche in Italia,
sebbene su scala ridotta rispetto a molti paesi dell’Europa del nord e
centrale. Lorenzo Vidino, ha cercato di osservare le attività su
internet di quelli che paiono essere residenti italiani che frequentano
“circoli virtuali” salafiti e che, in molti casi, adottano idee jihadiste.
Per fare ciò è stato necessario andare alla ricerca di utenti italiani (o,
meglio, “sociologicamente italiani”) su alcuni dei più famosi forum
jihadisti internazionali. Usando vBlueprint, un software sviluppato dalla
società statunitense Flashpoint Global Partners, sono stati identificati
centinaia di soggetti che dall’Italia regolarmente accedevano a forum
quali Shumukh, Ansar al-Mujahideen Arabic, al-Qimmah e Ansar al-
Mujahideen English.

Inoltre sono state monitorate per mesi le attività su facebook di
una piccola comunità di soggetti italofoni che adottano interpretazioni
estremamente militanti del salafismo. Con l’ausilio di tre assistenti
con esperienza in materia sono state identificate dapprima le pagine
facebook di alcuni soggetti italiani noti per le loro idee e attività radicali:
Jarmoune, Delnevo, el-Abboubi e Farina, insieme ad alcuni degli
indagati di Operazione Niriya. Successivamente sono stati individuati gli
“amici” e i commenti sulle pagine facebook e, inoltre, la sezione “amici”
di quelle stesse pagine facebook.

Dei più di diecimila profili così identificati, un centinaio è stato
selezionato come “d’interesse”. Vari fattori, inevitabilmente soggettivi e
poco empirici, sono stati presi in considerazione per determinare quale
profilo fosse tale. I due principali sono: a) postare con regolarità materiale
d’ispirazione jihadista; b) essere connessi con altri soggetti dalle chiare
simpatie jihadiste. Ma entrambe queste caratteristiche costituiscono solo
un’indicazione preliminare che il soggetto abbia simpatie jihadiste e non
una prova. I profili facebook “aperti” di circa 200 soggetti identificati con
questo metodo sono stati monitorati per un periodo che va dall’agosto
2013 al gennaio 2014.

Per motivi legali non è possibile pubblicare i dettagli e le informazioni
personali dei soggetti monitorati. È però possibile descrivere i trend
generali che caratterizzano le attività di quella che può essere definita
come una piccola, ma attiva, comunità online di simpatizzanti italiani
del jihad. Come prima cosa va detto che il termine comunità non deve
essere inteso nel senso di gruppo coeso e ben strutturato. Al contrario,
è più corretto dire che esistono soggetti residenti in Italia che adottano
varianti dell’ideologia jihadista e che, con diversi livelli di frequenza,
operano e interagiscono tra loro online. Essi rappresentano una comunità
solo nel senso lato della parola.

Bisogna poi aggiungere che non tutti i soggetti che appartengono
a questa scena possono essere inseriti nella stessa categoria o
automaticamente identificati come jihadisti o pericolosi. Ogni caso deve
essere analizzato separatamente. Alcuni soggetti approvano apertamente
alcune delle più violente azioni perpetrate da gruppi jihadisti sparsi per
il mondo, postano eulogie funebri di Osama bin Laden o di Anwar al-
Awlaki, scrivono commenti con minacce più o meno velate nei confronti
dell’Italia e dell’Occidente e, come visto in alcuni casi descritti sopra, si
scambiano manuali operativi. La maggior parte dei membri di questa
comunità posta solo materiale di natura teologica di chiara tendenza
salafita, commenti politici altamente provocatori ma non illegali e clicca
“Mi piace” sotto ai video jihadisti postati da altri user. A riprova che
mettere nella stessa categoria tutti questi soggetti sia un errore sono le
frequenti e spesso accesissime discussioni tra due o più membri della
comunità su un’infinità di questioni religiose e politiche. Le legittimità
dell’uso della violenza (dove, quando, come, contro chi) è una delle
questioni dibattute con maggior frequenza.

Tuttavia, nonostante le differenze, tutti i soggetti che appartengono
a questa scena sono interessati alle frange più conservatrici e militanti
del salafismo e, chi più chi meno, al jihadismo, e sono collegati tra loro
tramite facebook. Anche se è difficile per Vidio ricostruire queste
dinamiche, sembra che molti di questi soggetti si conoscano anche
nel mondo reale. In alcuni casi questo avviene prima dell’incontro su
internet, mentre in altri segue un percorso contrario. Cosicché i soggetti
stabiliscono una connessione su internet dopo essersi conosciuti a un
evento, in moschea o tramite amici comuni. Allo stesso modo, i contatti
tramite facebook forniscono solo una visione parziale delle interazioni
tra vari soggetti, che spesso spostano le loro conversazioni più private
e potenzialmente “sensibili” su altre piattaforme più riservate (email,
conversazioni non aperte su facebook, vari servizi di messaggistica).

Una cinquantina di soggetti costituisce i perni di questa scena,
estremamente attivi online (e, in alcuni casi, anche nel mondo reale) e
sono in costante comunicazione con molti altri user su internet. I loro
profili sociologici sono eterogenei, ma molti sono convertiti italiani
tra i venti e i trent’anni (con un discreto numero di quarantenni). Altri
hanno origini straniere, ma sono nati o hanno trascorso la maggior parte
della loro vita in Italia. Va notato che i soggetti di origine nordafricana,
demograficamente la componente più grande dell’islam italiano e
tradizionalmente le forze trainanti del jihadismo italiano, non sono
presenti in gran numero. Sono invece sovrarappresentati i soggetti di
origine albanese, kosovara e, in maniera minore, bosniaca.

Per tutti questi il salafismo militante, sia esso nella forma apertamente
jihadista o in interpretazioni meno estreme, pare essere il loro interesse
principale nella vita. Essi aggiornano costantemente la propria pagina
facebook e spesso gestiscono anche uno o più blog e profili su twitter.
A differenza della maggior parte dei militanti della prima generazione,
che erano solo fruitori passivi di propaganda su internet, questa nuova
generazione di attivisti autoctoni è spesso anche impegnata nella
produzione del proprio materiale jihadista. Come visto nei casi di
Jarmoune, el-Abboubi, Delnevo e di molti altri, questi attivisti traducono
e postano i propri testi e producono i propri video, in alcuni casi di
ottima fattura.

Intorno a questo zoccolo duro di attivisti esiste un gruppo più ampio
il cui impegno, perlomeno giudicando dagli elementi che le loro pagine
facebook offrono, sembra meno intenso. In questa fascia più grande
non è raro imbattersi in soggetti che occasionalmente postano un “Mi
piace” sotto a un video jihadista o una buona parola per qualche attività
o soggetto jihadista, ma il cui impegno per la causa sembra fermarsi
lì. Alcuni di loro paiono avere un profilo meno “puro” rispetto ai
membri dello zoccolo duro: sono musulmani (ma in alcuni casi questo
non è chiaro), sebbene molti dei loro interessi (discoteche, hip hop,
frequentazioni con l’altro sesso) non siano comunemente associati
all’islamismo militante.

Questa scena virtuale pro-jihad italiana è molto fluida e informale
e opera come molte altre comunità online. I suoi “membri” si “danno
l’amicizia” tra loro, si “taggano” a vicenda su foto e scrivono sulla pagina
dei loro amici. Pubblicizzano vari eventi che avvengono nella loro zona
e notizie d’interesse, organizzano incontri nel mondo reale e gruppi di
discussione in quello virtuale, interagiscono tra loro con modalità che
variano dall’esprimersi solidarietà vicendevole e condividere importanti
eventi della vita privata all’addentrarsi in critiche e vere e proprie liti al
vetriolo. Una delle forme più comuni d’interazione è scambiare commenti
su eventi correnti, siano essi di politica italiana o relativi a vari conflitti
riguardanti i musulmani nel mondo, aggiungendo link e video.

Molti membri della comunità postano link jihadisti o cliccano “Mi
piace”, ma non esprimono apertamente la propria approvazione per
l’operato di gruppi jihadisti. Ed è chiaro che esprimere un “Mi piace”
non vuol dire necessariamente approvare le azioni mostrate nel video.
Altri sono meno cauti, esprimendosi apertamente in lodi per vari gruppi
jihadisti. Post con forti toni antisemitici o che invocano una “brutta fine”
per determinati soggetti non sono rari. Alcuni postano foto di soggetti
che, in alcuni casi, paiono essere loro stessi, con uniformi militari e armi
automatiche.

Queste forme di approvazione per gruppi jihadisti possono essere
interpretate in molti modi. Da un certo punto di vista pare saggio
evitare reazioni allarmistiche. Vari studi hanno dimostrato che rientra
nella norma tenere una condotta diversa sul web rispetto alla vita reale,
dicendo o facendo cose molto più estreme. Vi sono migliaia di forum
per militanti di estrema destra, estrema sinistra, anarchici, estremisti
ambientalisti e di altre ideologie pieni di minacce di violenza. Lo stesso
vale per siti del mondo ultrà o perfino in siti di fan di cantanti o attori.

Tuttavia la maggior parte dei soggetti che invoca tutta questa violenza
online non commetterà mai alcun atto violento nel mondo reale. La
stragrande maggioranza di “cyber-guerrieri” jihadisti è esattamente
come gli altri cyber-guerrieri: estremisti virtuali le cui esternazioni non
passeranno mai dalla tastiera alla strada. Molti dei soggetti che fanno
parte della comunità italiana di simpatizzanti del jihad a un certo punto
ne usciranno del tutto, considerandola solo una fase della propria
gioventù. Altri manterranno certe posizioni, ma non agiranno mai in
maniera violenta.

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